Tuttavia, anche se il rap forse non possiede un autentico potenziale emancipatorio, continua a offrire alle giovani generazioni uno spazio in cui dare voce ad ansie, speranze e rabbia, mantenendo viva una forma di espressione capace di rappresentare le contraddizioni del presente. Se è vero, come sostiene Simon Reynolds, che l’attaccamento del rap al “reale” finisce per sancire la morte del “sociale”, offrendo una visione disincantata e riduttiva della realtà, è altrettanto importante sottolineare quanto questo postulato sia ingannevole. Innanzitutto, nessuna forma di narrazione si limita a “fotografare” il reale: ogni racconto lo interpreta, lo costruisce, lo orienta. Allo stesso modo, il rap — come qualunque altra espressione culturale — non si limita a rappresentare il mondo, ma lo influenza attivamente, contribuendo a modellare il modo in cui lo percepiamo e lo comprendiamo. In questo senso, anche quando molti rapper adottano una visione neoliberale e rinunciano a ogni ambizione trasformativa, il genere continua a esercitare un impatto concreto sulla realtà che lo circonda. Nel contesto italiano, ad esempio, il successo commerciale del rap nell’ultimo decennio ha avuto un impatto profondo sulla società, portando alla ribalta una scena musicale multirazziale. Nonostante questa scena abbracci spesso la stessa visione scarnificata della realtà che abbiamo descritto precedentemente, ha provocato una reazione di rigetto da parte di una parte consistente della società italiana, incapace di accettare fino in fondo la diversità che il rap oggi rappresenta. In questo scontro non emergono soggetti radicali o rivoluzionari, ma proprio in queste fratture si possono forse intravedere i germi di un conflitto sociale più ampio, che nella rappresentazione che il rap offre della realtà trova, ancora una volta, il proprio spazio di tensione e possibilità.