di
Candida Morvillo
Il manager del calcio e la storia della sua Emanuela, morta a 33 anni. I successi, poi il dolore, i segreti e la caduta. «Ancora mi chiedo dove ho sbagliato. Serve una legge che permetta di intervenire»
Emanuela Perinetti era una manager del marketing sportivo: progetti con brand e campioni, la stima di allenatori e dirigenti. Aveva solo 33 anni e, nella sua biografia, si rincorrevano nomi come David Trezeguet, Fabio Capello, Paulo Dybala. È morta il 29 novembre 2023, a Milano, di anoressia. Nella sua storia c’è il ritratto di una generazione di giovani donne che corrono, corrono, mietono successi, hanno tutto, eppure, inspiegabilmente, cadono.
«Non ho visto arrivare la sua caduta, non ho capito il suo dolore», dice ora suo padre Giorgio Perinetti, 73 anni, già dirigente alla Juventus, alla Roma, al Napoli, in tante squadre, e oggi direttore tecnico del Palermo. Per anni, ha gestito giocatori anche nei momenti di crisi. Fu lui a dire a Diego Armando Maradona che era stato squalificato per doping. E ora, il suo tormento è non aver saputo affrontare la crisi di sua figlia.
Racconta: «Di notte, ancora mi chiedo dove ho sbagliato, dove non ho capito». Col giornalista del Corriere della Sera Michele Pennetti, ha scritto per Cairo Editore il libro Quello che non ho visto arrivare, in uscita oggi, in cui prova a ricostruire la vita, la malattia e il mistero di una figlia brillante che non è riuscito a salvare.

Quando si è accorto che sua figlia stava male?
«Era Ferragosto. Io lavoravo ad Avellino, Emanuela era di passaggio a Napoli e pranzammo insieme a Mergellina. Era di una magrezza preoccupante, ma da tempo la giustificava dicendo di avere un cancro che curava con la radioterapia. Quel giorno, mi spiegò che il 22 agosto si sarebbe operata a Montecarlo. Mi agitai, perché era invece previsto che si operasse a Milano a settembre e che ci fossi anch’io, ma lei si impuntò per farlo subito e da sola. Il 22, un amico mi mandò una foto da Montecarlo: Emanuela era a un evento col principe Alberto e Trezeguet, organizzato da lei. Lì, capii che qualcosa non tornava e iniziai a indagare».
«Un castello di bugie. Parlai col suo personal trainer, la sua psicologa, gli amici. Capii che il tumore non esisteva: era una copertura per evitare che io e la sorella le dicessimo che non mangiava. La affrontai e mi trovai di fronte un muro. Diceva che tutto era sotto controllo e che dovevo lasciarla in pace. Dopo, mi è stato spiegato che negare la malattia e dire bugie è la prima difesa di chi è colpito dall’anoressia».
Chi era in quel momento Emanuela, che vita aveva?
«Una giovane donna bella, elegante, caparbia che dopo la laurea era stata subito presa in Ernst & Young, e poi aveva seguito la sua vera passione: il calcio. Prima aveva fondato con Patricio Teubal una società. Poi si era messa in proprio, curava progetti per grandi marchi e atleti. Lavorava tantissimo, non conosceva vacanze, sempre in viaggio, era una stakanovista, più di me. Però, dopo la morte di mia moglie, nel 2015, aveva perso il suo punto di riferimento. Io cercavo di esserci, ma una madre con le figlie ha un legame più empatico, più continuo e io avevo sempre lavorato lontano da casa».

Si sta rimproverando qualcosa?
«Negli ultimi tempi, mi chiedeva di lavorare con me. In pandemia, gli eventi si erano fermati e lei era rimasta a Milano da sola, senza poter lavorare. Deve essere stato così che ha smesso progressivamente di mangiare. Finito il lockdown, mi aveva chiesto di fare qualcosa insieme. Mi diceva: Milano è troppo caotica, magari Torino è più tranquilla, perché non vieni anche tu? Mi era sembrato strano perché era sempre stata attenta a non passare “per la figlia di” ma non avevo capito che era un segnale, un bisogno di appoggiarsi al padre. Emanuela si mostrava forte, indipendente, ma in realtà stava chiedendo aiuto, si sentiva sola».
Aveva anche scelto un mondo in cui per una donna non doveva essere facile avere successo.
«Glielo dicevo sempre e lei: “Papà, ma io questa passione da qualcuna l’ho presa, no?”. Quando ero alla Roma era una bambina, ma veniva a vedere tutte le partite. Alla fine, voleva sempre tornare in pullman con la squadra a Trigoria. Si sedeva in braccio ad Aldair o a Peppe Giannini, Abel Balbo o a Francesco Totti, che la trattavano come una nipotina».
Cosa succede quando l’affronta per dirle che sa che il tumore non esiste?
«Che riesco a portarla al San Raffaele per una visita e le dicono che deve immediatamente ricoverarsi per un mese, ma lei si rifiuta. Dice: io ho da fare, siete pazzi. Purtroppo, per costringere un adulto capace di intendere e di volere al ricovero, serve il suo consenso. Io ero schiacciato fra la burocrazia e il senso di impotenza e non potevo neanche contare su mia moglie. È devastante sapere che tua figlia sta morendo e tu non puoi fare niente. Servirebbe una normativa diversa, che permetta ai genitori d’intervenire. Usciti dall’ospedale, abbiamo discusso, finché mi ha detto “mi curo, ma non qui”. Ha poi trovato un centro in zona Brera, l’Aba, ma era tardi».
Che cosa intende per «tardi»?
«Volle venire a piedi. Ho poi scoperto che un altro segnale dell’anoressia è la mania di camminare per bruciare calorie. Arrivò stremata, senza forze, al punto che non riuscì a fare le scale, l’ho dovuta portare su a braccia: questa era la situazione a un mese dalla fine. Pochi giorni dopo, cadde in casa e non riuscì ad alzarsi. Per portarla in ospedale, il medico dell’ambulanza si dovette inventare che, cadendo, aveva battuto la testa e doveva fare una Tac. Lì, però, con me, con la sorella e gli amici vicini, Emanuela riprese lentamente a mangiare. Il fisico, però, era troppo minato. Fu un altro trauma: vedevo che voleva vivere, la guardavo strappare la bresaola a piccoli morsi, ma era troppo tardi. Una dottoressa mi chiese: “Ma lei è pronto? È preparato?”. E io: “Ma si può chiedere a un padre se è preparato a perdere la figlia?”».
«Un padre spera sempre nel miracolo. Un giorno, Emanuela mi disse: “Papà, mi metti ansia. Vai dalla squadra, preferisco che non ci sei”. Col cuore spezzato, mi misi in macchina e corsi a Roma al santuario della Madonna del Divino Amore, vicino a Trigoria. È stato un estremo tentativo. La fede andrebbe coltivata di più, perché ci aiuta in tutto il percorso; invece ce ne ricordiamo solo nei momenti tragici. Mentre ero via, Emanuela si aggravò. Non sono riuscito a salutarla: è morta un’ora prima che arrivassi. Mia figlia ha deciso anche quello: mi ha allontanato, non voleva che vedessi la sua fine. Uno degli ultimi giorni, mi disse: “Ho visto mamma in sogno e mi ha detto che mi aspetta”. Lì, ho capito che l’avevo perduta».
Col senno di poi, perché si è ammalata?
«Ancora non so dirlo, ma la pressione sociale, con la necessità della performance e del controllo, esiste. La competitività crea uno stress assoluto, un bisogno di essere all’altezza. E a una donna si chiede anche di essere perfetta, elegante, curata: è il doppio di un uomo».
Che cosa si sente di dire a chi vive il suo stesso calvario?
«Che è importante cogliere i segnali in tempo. E che devi capire che non puoi avere autorità: devi avere tenerezza, metterti dalla parte di tuo figlio, non dalla parte presuntuosa di chi gli dice cosa fare. Devi sentire il suo disagio, cogliere la sua richiesta di amore».
7 novembre 2025
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