Raggi di luce che filtrano dalle finestre, tende screziate dal sole, giostre colorate in movimento, immagini sovraesposte, storte, di sbieco, sbagliate, che trasudano vita, persino gioia, oltre e nonostante l’occupazione. Sono gli scatti realizzati da otto donne e madri di Tel Rumeida, quartiere di Hebron.
Nelle loro mani, e in quelle di figlie, nuore e nipoti, attraverso piccole macchine analogiche, si è tessuta una storia, si sono autoraccontate, grazie al progetto ‘Om/Mother della fotografa e artista visiva belga Barbara Debeuckelaere che dal settembre 2023 è tornata più volte in Cisgiordania per conoscerle.
Entrare in confidenza, creare una relazione, è stato indispensabile per mettere le donne a proprio agio e incoraggiarle a posare il loro sguardo sulla realtà intima, privata, e non solo, che vivono ogni giorno. Un lavoro condiviso che ha dato loro voce. Hebron H2 è sotto il controllo militare israeliano, il contesto è prevalentemente maschile, coloni, soldati, mentre le donne il più delle volte sono rappresentate come madri dei martiri. ‘Om, madre in arabo, si intende anche nel senso di madrepatria, lingua madre, procreatrice di futuro, per questo il corpo femminile è il primo obiettivo di guerra e violenza. C’è in queste donne un attivismo fatto di gesti semplici, di resistenza silenziosa e di autodeterminazione.
Gli scatti sono raccolti nel libro ‘Om/Mother pubblicato dall’olandese The Eriskay Connection, è già alla seconda edizione e ha ottenuto diversi riconoscimenti. Il volume in inglese, diviso in cinque parti quante sono le preghiere quotidiane obbligatorie per i musulmani, ha un’introduzione del fotografo Adam Broomberg e dell’autrice, per chiudere con una breve storia dei territori occupati.
La mostra, curata da Laura De Marco, è esposta allo Spazio Labò di Bologna fino al 22 gennaio. A Barbara Debeuckelaere abbiamo rivolto alcune domande.
Come nasce questo progetto di autonarrazione rivolto alle madri di Tel Rumeida?
Sono tornata a Hebron nel febbraio del 2023, ho incontrato Adam Bloomberg che mi ha parlato di Issa Amro, difensore dei diritti umani che abita a Tel Rumida dove ha il centro Youth Against Settlements, un luogo importante per la comunità. Mi ha fatto conoscere una decina di famiglie, volevo incontrare le donne e i bambini poiché che nei video, sui social media, ci sono solo uomini, soldati e coloni.
Le donne sono una presenza più nascosta. Ho registrato molte storie. La vita è difficile sotto occupazione, c’è tanta violenza. Ho ascoltato, ho scattato foto, ma mi chiedevo come poter raccontare.
Sono tornata a maggio e ho filmato, avevo l’idea di fare un documentario della vita di una famiglia. Era un buon materiale, ma era sempre la mia prospettiva. Come riuscire a mostrare la loro? Sono tornata a settembre dalle stesse famiglie. Mi conoscevano, avevo già creato una connessione.
Ho cercato di far capire il progetto. Otto famiglie mi hanno detto di voler partecipare, ho dato delle camere analogiche a ognuna. Due terzi delle case sono vuote, molti se ne vanno perché la vita è molto complessa e brutale.
Restare è già un atto di resistenza. Avere una vita lì con i propri bambini vuol dire davvero avere a cuore il paese, la terra, gli alberi, le case: scattare foto al loro ambiente piccolo, intimo è un modo per dimostrare la loro resistenza.
Perché ha scelto le foto in analogico?
Offrono un’immagine più complessa e ambigua, più femminile, in contrasto al digitale usato dalla stampa, dalla politica. Conosciamo le immagini digitali dei checkpoint, dei coloni, delle telecamere di videosorveglianza.
È importante mostrare l’altra prospettiva, quella femminile e non intendo soft, al contrario, è piuttosto radicale, diversa da quella normalizzata. Lasciar vedere case, oggetti comuni, significa raccontare ancora di più la resistenza rispetto alla rappresentazione dei checkpoint e della violenza.
C’è una relazione diretta fra madre e nazione, sono le donne, le ragazze, le prime vittime dell’oppressione perché capaci di dare la vita, è grazie ai figli che può esserci un futuro. Non è una coincidenza che il settanta per cento delle vittime a Gaza siano donne e bambini.
È bene consegnare un’altra prospettiva, vedere sempre le stesse immagini anestetizza. È importante mostrare che hanno una vita, sono contenti e vogliono restare.
Le donne sono molto forti. Oltre all’archivio di foto e una carrellata di immagini, ci sono i suoni di Hebron, raccolti ad aprile del 2025. Ogni famiglia ha scattato tre o quattro rullini. È importante che sia mostrato in Europa. Quando le ho intervistate sul progetto ho capito quanto fosse stato importante per loro. Ora c’è qualcuno che le guarda, non sono sole.
È un’autorialità collettiva, non è specificato chi ha scattato ogni foto, e il profitto del libro e delle immagini vendute va a loro. Abbiamo raccolto qualche migliaio di euro e con Issa Amro, che è una sorta il capo del villaggio, cerchiamo di capire quali siano le necessità di ogni famiglia. Vorremmo che il denaro servisse per migliorare le case così da poter restare a Tel Rumeida. L’intenzione del progetto è rinforzare la comunità, non concentrarsi sul nemico e l’occupazione. È importante che le partecipanti possano presentarsi come artiste, fotografe e co-creatrici del progetto.
Che valore assume l’autorappresentazione, il loro sguardo, invece del suo?
Mi sono chiesta se toccasse a me dire qualcosa e come, con quale linguaggio, in quanto persona bianca europea. Ho capito che è necessario osare e prendersi delle responsabilità.
I palestinesi erano felici del progetto. La fotografia è uno strumento per testimoniare, documentare; in questo caso deve essere realizzata dalle palestinesi, non tocca a noi. Penso debbano rappresentare loro stesse perché da decine di anni sono oggetto di una rappresentazione falsa.
C’è gioia e voglia di vivere negli scatti, non si rappresentano come vittime…
C’è qualcosa che va oltre l’essere oppresse, che rimane comunque evidente. Per noi europei è fondamentale assumere i palestinesi non solo come vittime, ma come persone comuni, come noi. Non vogliono essere guidati dalla paura, dall’oppressione, perciò rimangono lì.
Ci interessava far uscire anche questa gioia di vivere. È tempo che il mondo veda i palestinesi come un popolo al pari di tutti gli altri. Hebron è l’esempio più estremo dei territori occupati, ma anche lì c’è la gioia.