Tutto parte con il drammatico, quasi shakespeariano prologo di Predator: Badlands. Arrivato il momento per Dek di diventare un cacciatore degno della sua specie, considerato però debole dai suoi consanguinei e persino meno prestante del resto dei suoi compagni guerrieri, il protagonista fallisce al punto che si ritrova a fuggire lontano dalla propria terra natia, tanto in esilio quanto deciso a dimostrare il proprio valore al gruppo per poter così tornare a farne parte e vendicarsi. Per farlo deve provare di aver condotto alla morte una mitologica belva selvaggia, un essere mitico che sembra non poter essere ucciso e che solo se riuscirà ad abbatterlo potrà finalmente guadagnare dignità e onore. Nel mentre, durante la sua spedizione, troverà lungo il percorso una sintetica senza arti inferiori, Thia, la quale lo aiuterà nella sua missione.
La nuova figura del Yautja
Come Prey si rimetteva ad una tradizione sociale e culturale che ruotava attorno alla comunità dei Comanche, stavolta Predator: Badlands si affida a sentimenti più diffusi e conosciuti in termini letterari, assorbendoli e adattandoli al cosmo fantastico e feroce del franchise horror/fantascientifico. Reietto e considerato debole dal proprio padre, Dek è il prototipo dell’outsider che deve dimostrare di poter essere un eroe e, perciò, intraprende il tipico viaggio che cambierà non solo le sorti del suo destino, ma persino il suo punto di vista. Addentrandosi in territori sconosciuti e inospitali, muovendosi come un alieno tra gli alieni, ciò che spinge Dek non è soltanto una sete di sangue e una violenza inaudita che, fin dal principio, hanno caratterizzato i titoli della saga, ma un auto-affermazione di se stesso. Questo spostamento dalla pura brutalità che ha sempre caratterizzato Predator alla messa in discussione del protagonista potrebbe far vacillare la fedeltà di molti nei confronti del franchise, ma in realtà è esattamente l’unica maniera per permettere ad un’opera con un simile passato di poter proseguire la sua strada.
Per farlo non solo finisce per decostruire la figura del Yautja – in una ripresa della decostruzione del maschile nella contemporaneità, se vogliamo – ma aggiunge all’opera un tocco d’avventura per spostare leggermente il genere di riferimento dal solo horror/sci-fi all’action-adventure. Un’autentica esplorazione del pianeta su cui Dek atterra e che viene osservato, studiato e indagato come in una spedizione. A cui non mancano i momenti di furia peculiari nella saga e attesi anche dai fan, sebbene ci sia stato un altro particolare che ha fatto leggermente storcere il naso agli appassionati, ovvero il PG-13 con cui è stato classificato il film.
Censure, violenza e fedeltà
Da sempre sperato per qualsiasi pellicola, il PG-13 non è assicurazione di un successo al botteghino, ma è comunque desiderato dalle produzioni proprio per l’opportunità che offre di poter ampliare il più possibile il proprio bacino di spettatori e, dunque, di riscontro al box office. Che il PG-13 equivalga ad un ridimensionamento della qualità di un’opera, specialmente fantascientifica come in questo caso, non è detto.