C’è una scena di Berlinguer e La Grande Ambizione, quella della visita di Enrico/Elio in borgata, che in sceneggiatura prevedeva anche l’incontro tra il segretario e Lamberto Maggiorani, l’attore protagonista di Ladri di Biciclette. Un incontro davvero avvenuto a Roma negli anni Settanta, che ci era stato raccontato da alcuni compagni romani durante le nostre ricerche prima della scrittura.

Quella scena poi nel film è saltata, come a volte capita nel cinema. Ma la scrittura di quella scena ha in sé una storia che penso sia fondamentale per capire il pensiero di Enrico Berlinguer e del Pci. Quando la scrivemmo conteneva questa frase di Enrico a Maggiorani: «Che piacere conoscerti. Quanto mi avete fatto piangere con quel film!». Per molto tempo rimase così, poi un giorno abbiamo fatto leggere la sceneggiatura alle figlie e al figlio di Enrico e fu proprio il figlio Marco, uomo silenzioso e preciso, a dirci che quella scena conteneva un errore: «Mio padre», ci disse, «non avrebbe mai detto “quanto mi avete fatto piangere”, ma “quanto ci avete fatto piangere”».

In questa differenza tra mi e ci, in questo rapporto tra mi e ci sta il centro emotivo e politico del documentario Noi e La Grande Ambizione, che ho realizzato durante la distribuzione del film Berlinguer. La Grande Ambizione che esce al cinema in questi giorni.

L’esperimento 

Quando un anno fa ho visto decine di migliaia di ventenni e trentenni riempire le sale per vedere il nostro film mi sono detto che era non solo interessante, ma anche importante fermarsi a capire cosa stesse succedendo. Cosi ho invitato alcuni di quegli spettatori, scelti per diversità e non per omogeneità, ma con in comune una qualche esperienza di attivismo civico e politico, a delle tavole rotonde in cui vi erano solo due regole: tenere il cellulare spento e non parlare di Berlinguer e del Pci anni Settanta, ma di sé stessi e del mondo di oggi.

Lo abbiamo fatto in dieci città: Palermo, Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Venezia, Padova, Milano, Torino e Genova. In fondo ciò che proponevo loro era parlare di noi, anche se sapevo che quel noi oggi in realtà fa enorme fatica ad esistere. Ed infatti ciò a cui ho assistito e che ho filmato in quelle tavole rotonde è una ricerca faticosa ma cosciente di un’identità collettiva capace non solo di contenere le diversità, ma anche di liberarci dalla trappola angosciante e soffocante dell’identità individuale e selettiva a cui la società neoliberista e le tecnologie telematiche ci hanno consegnati.

Berlinguer diceva ci  e non mi perché doveva rispettare la centralità del noi e perché era chiaro chi fosse quel noi. Un noi che teneva unite diverse culture (un molisano a Roma, un vicentino a Venezia, per non parlare di un catanese a Torino, erano culture profondamente diverse e spesso in contrasto), diverse estrazioni sociali e diverse esperienze personali: quel noi era la classe operaia che lotta per il socialismo ed era il partito.

La base di un’identità collettiva

Quel noi non è più applicabile alla società di oggi. Questo si dice spesso: non ci sono più gli operai, le classi sono spaccate da altre appartenenze, la società è frammentata e i partiti non hanno più la funzione che avevano nel Novecento, perché sono diventati aziende private o uffici tecnici privi di rapporti con la società. Tutte annotazioni corrette, su cui anche i partecipanti alle tavole rotonde spesso si soffermavano, ma forse svianti. La costruzione del noi a cui Berlinguer dedicava la sua vita aveva richiesto un tempo e una fatica molto lunga, che ovviamente si era servita di strumenti e di caratteristiche di quel mondo e di quel tempo.

E per questo quel noi non può essere riutilizzato o riciclato oggi (ci sono in Italia una decina di partiti comunisti e tutti hanno un bacino elettorale dello zero virgola qualcosa). Ma il principio strutturale di quella costruzione ha ancora qualcosa da suggerirci ed è su questo “qualcosa” che i partecipanti delle tavole rotonde hanno progressivamente concentrato la loro attenzione.

Quel noi contiene due caratteristiche che possono ancora essere una base strutturale di un’identità collettiva e comune: da una parte riconoscere oltre le diversità (e quindi anche nella diversità) problemi comuni legati a condizioni di ingiustizia sociale prodotta da un potere più forte (o apparentemente più forte) e dall’altra avere in comune il sogno di poter sconfiggere quel potere per ottenere giustizia comune e condivisa. Si chiama lotta contro le disuguaglianze e redistribuzione di ricchezza (e quindi diritti).

Se questi due perni diventano centrali e non discutibili, allora il noi si allarga e diventa capace di contenere anche altre lotte, proposte, direzioni, identità dentro ad una forma di organizzazione unitaria («che possiamo anche non chiamare partito, ma Topo Gigio» come dice brillantemente Rocco, uno dei partecipanti della tavola rotonda di Torino), di cui abbiamo bisogno per affrontare i nostri problemi (o bisogni) e per ottenere il nostro sogno.

Socialismo senza nostalgie 

Può questo sogno chiamarsi ancora socialismo? Fino alla settimana scorsa se avessi risposto di sì avrei schiacciato me e questo articolo nell’angolo buio del nostalgismo ideologico, oggi dopo la vittoria di Zohran Mamdani a New York la discussione è ben diversa.

Ciò che ha fatto Mamdani a New York (e forse è giusto considerare New York non un’anomalia, ma un’avanguardia, visto il suo ruolo nella storia e nel mondo) è stato proprio partire da quei bisogni materiali che potessero non solo unire diversi individui e comunità della frammentata società newyorkese, ma anche restituire loro la voglia di partecipare ad una comunità; una comunità che non vuole essere solo elettorale, ma un vero e proprio movimento fatto da migliaia di volontari e decine di gruppi e associazioni. Un movimento di classi popolari lo avrebbe definito Berlinguer.

I bisogni che Mamdani ha messo al centro sono l’accesso a diritti sociali fondamentali quali casa, cibo, sanità, educazione e trasporti, e nascono da una crisi che ha una causa precisa, l’indubbia concentrazione di ricchezze in mano ad una oligarchia che per garantirsi il suo potere alimenta divisioni identitarie e odii etnici.

Ma i bisogni e la rabbia non bastano, serve anche un sogno. Quello offerto da Mamdani è chiaro: costruire una città e una società socialista, ovvero una città non in vendita ma equa, accessibile e vivibile.

Non so cosa penserebbe Berlinguer di Mamdani (probabilmente gli ricorderebbe che per lottare contro le disuguaglianze bisogna andare oltre il capitalismo e cambiare il rapporto società e mercato), ma sono certo che per i partecipanti alle tavole rotonde e per molti altri di noi costituisce l’occasione per dirci ciò che davvero pensiamo, vogliamo e sogniamo insieme.

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