di
Aldo Cazzullo
Matteo Giunta: «Per tenere segreta la nostra storia mi nascondevo nel bagagliaio». L’ex nuotatrice: «Da veneta, per farlo cedere, ho puntato sull’alcol»
Lei, Federica Pellegrini, ha vinto sei medaglie d’oro mondiali e ha disputato cinque finali in cinque Olimpiadi — record imbattuto —: argento ad Atene 2004, oro a Pechino 2008. Lui, Matteo Giunta, ex atleta, è diventato suo allenatore, suo marito, e padre di sua figlia Matilde. Insieme hanno scritto un libro, In un tempo solo nostro.
Come vi siete incontrati?
Federica: «Ho avuto un grande mentore nella mia vita, Alberto Castagnetti, che però mi ha lasciato troppo presto, per un attacco di cuore. Poi ho avuto cambi tecnici abbastanza ravvicinati, finché non ho trovato Matteo. Prima come preparatore atletico, poi come coach».
E ha iniziato a corteggiarlo.
F.: «Lui se l’è tirata tantissimo! Ma tanto!».
Come corteggia Federica Pellegrini?
Matteo: «Quando io lavoro ho il paraocchi: il rapporto allenatore-atleta è inscalfibile, non si può in nessun modo andare in altre direzioni. Diciamo che la mia capacità un po’ è stata scalfita pesantemente da questi continui assalti…».
Ma com’è andata: messaggi? Bigliettini?
F. «Niente di così diretto. Però era un’elettricità che effettivamente dopo un po’ lui ha dovuto per forza sentire».
Nel libro scrivete di un primo bacio a una festa di Halloween.
F. «Io sono veneta, figlia di un barman, lui è di Pesaro… Sapevo che la sua base alcolica non era proprio così solida come la mia, quindi ho puntato su quello… (La Pellegrini sorride)».
M. «Per mantenere la nostra storia riservata, mi nascondevo nel bagagliaio. Per fortuna la macchina era grande, ma io sono alto un metro e 94; così mi è venuta la sciatica».
Il padre di Federica non ha sempre fatto il barman.
F. «Era nella Folgore. La prima volta in cui ebbe paura a lanciarsi fu quando ero nata io: temeva di perdere qualcosa. Così ha ripiegato il paracadute e l’ha lasciato lì. Questa cosa del tricolore, della patria, l’ho ereditata da lui e la porto sempre dentro: rappresentare l’Italia alle Olimpiadi è stato il grande onore della mia vita. Ma l’acquaticità l’ho presa da mamma. Avessi preso da papà, avrei fatto il palombaro».
Bella, vincente, però fragile.
F. «Ho attraversato momenti molto difficili. Sono andata via di casa dopo l’Olimpiade di Atene, a sedici anni. Vivevo a Milano con altre tre ragazze, lontano dalla mia famiglia. Mi sentivo sola, e lo ero. Qualsiasi cosa facessi ero sulla bocca di tutti, vivevo in costume, avevo i miei sbalzi ormonali, che la testa ingigantiva, e che la gente percepiva. Così sono diventata bulimica. Per fortuna sono sempre stata una persona molto introspettiva; quando ho capito che quello che stavo facendo a me stessa non andava bene e mi danneggiava a livello sportivo, è cominciata la risalita».
Quanto pesavano gli sguardi maschili?
F. «Tanto quanto gli sguardi femminili. Quando si parla di giudizi, noi donne siamo peggio degli uomini».
Come si allena la testa di Federica, di un’olimpionica?
M. «Tutti questi problemi si possono evitare se si è seguiti da uno specialista fin dall’adolescenza. Nella nostra Academy abbiamo uno psicologo dello sport per far capire ai ragazzi che ci sono gli strumenti per affrontare le ansie e le paure. A cominciare dalla paura di fallire. Di perdere».
F. «Ma io la paura di fallire, anche solo verso me stessa, l’ho avuta fino all’ultima gara che ho fatto. Così per non fallire mettevo il 110%».
Come a Pechino: al mattino sbagliò la finale dei 400, al pomeriggio nella batteria dei 200 fece il record del mondo, il giorno dopo vinse l’oro.
F. «Quella medaglia non l’avrei persa per niente al mondo. Una cattiveria agonistica così non l’ho mai avuta».
Poi la nuova crisi.
F. «Nell’ottobre del 2008 provo gli 800 a un meeting italiano, in un contesto molto tranquillo. Mi viene un attacco d’asma, di cui non sapevo di soffrire. Temevo di rivivere nella mia testa quel momento, mentre nuotavo, per ogni gara che avrei fatto di lì in avanti. E così purtroppo è stato. Il lavoro psicologico è stato durissimo, più di quello fisico; perché il dolore del corpo che provi quando sei distrutta dagli allenamenti lo capisci, quello della mente no. Fino al sogno che mi ha salvata».
Quale sogno?
F. «Sognai di buttarmi a fare questa maledetta gara dei 400 stile libero con l’accappatoio. Non mi fregava niente di arrivare ultima; però quei 400 li ho finiti».
Con l’accappatoio?
F. «Con l’accappatoio. Ho continuato a nuotare con quel peso addosso, una fatica mentale perché pensavo di averli fatti veramente. Quando mi sono svegliata però ho capito. E mi sono detta: ci siamo».
Qual è il segreto del successo di un atleta?
M. «Philippe Lucas, che ha allenato Fede dopo Castagnetti e prima di me, parlando di un’altra sua grande nuotatrice, Laure Manadou, ha detto: “Lei voleva vincere. Per un anno e mezzo non ho dormito un giorno. Ci siamo chiusi in piscina, l’ho massacrata, poi è uscita, e ha vinto”. È un metodo drastico, che non condivido del tutto, perché dal punto di vista mentale ti devasta. Ora il metodo si è evoluto: non è solo con il massacro che si raggiungono i risultati, ma lavorando bene».
F. «Io lavoravo bene, però mi facevo pure un gran mazzo».
E il segreto della longevità?
M. «Evolvere. Fede è passata da questo sistema massacrante – 90 chilometri a settimana in acqua – a 40 chilometri, accentuando la qualità. Quando si è giovani il fisico permette anche gli eccessi; più l’atleta cresce, più deve lavorare di fino».
A Laure Manadou Federica Pellegrini portò via l’allenatore, il fidanzato e il record del mondo.
M. «Quando Fede vuole qualcosa, al 99% lo ottiene».
F. «Poi è arrivato Matteo Giunta».
Ed è arrivata vostra figlia Matilde. Anche se non subito.
F. «No, questa bimba ci ha messo un po’ ad arrivare. Quando ci provi e ci metti qualche mese in più di quello che ti sei messo in testa sembra che non arrivi mai. La genitorialità è un percorso molto potente. Dall’inizio fino ad adesso, che Matilde ha quasi due anni, mi hanno detto: sarà sempre più complicato. Però è stato bello, molto. Non sempre facile, anche tra di noi: la psicologia maschile e femminile seguono due vie parallele, non si incontrano mai. È tosta».
M. «Noi siamo semplici, voi un po’ meno».
F. «Un po’ troppo semplici».
Voi avevate già in comune quattro bulldog francesi.
M. «Eravamo a casa di amici che avevano un bulldog, e ci stupivamo nel vedere che lo trattavano davvero come un figlio, ci pareva esagerato. Poi ci siamo finiti con tutte le scarpe, nel senso che anche noi abbiamo conosciuto questo amore, anzi quattro: Vanessa e Rocky, che sono marito e moglie, e i loro figli, Cesare e Bianca».
F. «Il veterinario ci aveva detto che era anatomicamente difficile che potesse succedere. Il giorno dopo Vanessa era incinta».
M. «È stata un’esperienza folle, che non rifaremo più. Pensavamo che il parto fosse una cosa semplice, naturale, senza conseguenze; invece due cucciole sono morte a distanza di due settimane. Un dolore difficile da superare».
Un giorno Rocky comincia a seguire Federica ovunque.
F. «Sì, lui mi segue sempre, però era particolarmente ossessionato da me in quei giorni. Dissi a Matteo che dovevamo portarlo dal veterinario perché c’era qualcosa che non andava bene. Invece c’era qualcosa che andava bene. E Rocky voleva proteggermi».
Nel libro scrive: «Sono sempre stata un orologio svizzero, tranne alla finale olimpica del 2016».
F. «È un discorso che ora si sta affrontando, e io dico: finalmente. Noi donne viviamo con un ciclo mensile che ci porta a cambiare fisicamente, anche di umore, di pensiero, di psicologia. Ogni mese cambiamo. E questo succede anche a un’atleta che lavora a centesimi di secondo. Io purtroppo all’inizio del 2016 ho avuto un ritardo di dieci giorni. Mi sono ritrovata a fare la gara olimpica nel periodo peggiore, cinque giorni prima del ciclo. I nuotatori sono abituati a lavorare sul proprio peso, quel chilo in più prima del ciclo sballa tantissimo».
Arrivò quarta, a un decimo dal bronzo, e scrisse: «Non è la sofferenza di una che accetta, ma di una che sa».
F. «Fu la svolta della mia vita. Se avessi vinto il bronzo mi sarei ritirata, non avrei rivinto il Mondiale, non avrei fatto la quinta finale olimpica. E forse non mi sarei messa con Matteo. Dopo la gara, dopo l’assalto dei media, ho pensato: “Un dolore così grande non lo voglio sentire mai più. Basta, finiamola qui”. Un mese dopo ci siamo rivisti a Pesaro e ho detto: “No, domani si ricomincia”. E ho nuotato più forte di quanto non avessi mai fatto».
Grazie a Rocky, Federica scopre di essere incinta. Di una femmina.
F. «Per me era la stessa cosa, però sapevo — da figlia — che per Matteo sarebbe stato molto più potente avere una femmina».
M. «Sono ormai due anni che sono molto sensibile a qualsiasi cosa, che so, vedo il Re Leone e mi fa piangere».
Matilde.
F. «Il nome di mia bisnonna, la nonna di mio padre, morta a 103 anni. Papà mi raccontava di questa donna molto forte, indipendente, centrale nella famiglia. Una matriarca. Me la ricordo anch’io. Per me è stata una figura importante; per questo il suo nome mi piaceva. Ho chiesto a Matteo se piaceva anche a lui, e mi ha detto di sì».
Com’è la gravidanza? Com’è, per un’atleta, il corpo che cambia?
F. «Il corpo che cambia è difficile da accettare. All’inizio ti guardano come a dire “come è grassa!”, prima ancora di capire che è la pancia della gravidanza. Poi, quando la pancia è esplosa, per me è stato il momento più bello in assoluto».
M. «Poi c’è anche la gravidanza maschile. Fede mi diceva: se ingrasso io, devi ingrassare pure tu. Quando andavamo a cena fuori ordinava di più, e poi non mangiava nulla. Così ho preso quei tre, quattro chili che non ho più perso».
Il parto è stato difficile.
F. «Difficilissimo. Forse è quello che ha innescato i problemi venuti dopo. Sono state 48 ore di follia. Adesso ci rido su. Matteo è sempre stato con me, è stato incredibile il suo supporto. Ho avuto contrazioni molto forti. Dovevano essere quelle di preparazione, però erano già molto dolorose. Questa cosa mi sembrava stranissima, perché ho una tolleranza del dolore abbastanza alta. E invece sono partite già potentissime, però erano molto distanti, abbiamo dovuto aspettare tantissimo tempo. E poi… problemi su problemi».
Nel libro racconta di aver provato prima il parto in acqua, poi l’epidurale, infine il cesareo d’urgenza.
M. «Però alla fine nella fase post-parto quello più provato ero io».
F. «A un certo punto si è perso il battito della bambina. E il chirurgo ci ha detto: non ha senso aspettare, andiamo in sala operatoria. Sono stati due giorni veramente “interessanti”. Ti prepari a tutto, perché abbiamo fatto il corso preparto insieme; però che accada tutto, e tutto insieme, non lo pensi mai. Avevamo al fianco un super team, per fortuna. La nostra preoccupazione era solo ed esclusivamente legata alla bambina».
Chi l’ha vista per prima?
F. «Io. Poi l’hanno portata subito a lui».
M. «Ero in un’altra stanza, con la dottoressa del centro federale di Verona, che segue Fede da quando nuotava. Quando ho sentito il pianto della piccola, è cambiato tutto».
F. «Sì, dopo giorni di così grande sofferenza, è stato il momento di gioia più incredibile».
Meglio Pechino 2008 o Matilde 2024?
F. «Come difficoltà, il parto. Come gioia, impossibile scegliere. Dopo tutto quel dolore, ci fosse stata una persona che abbia detto: “Oh, come ti assomiglia Fede”. Zero».
M. «Al massimo avevano l’accortezza di non dire niente a lei, venire da me e dirmi: è uguale uguale».
F. «Ho capito quanto è forte la natura quando Matilde si è attaccata al seno. Perché lei non mi aveva mai visto. Non sapeva, però si è attaccata. Il piccolo miracolo della vita».
M. «È sicuramente la più bella gioia che uno possa vivere. Però dietro ci sono tante situazioni non facili da gestire, a cui non si è pronti. Superarle non è semplice. Bisogna essere proprio molto uniti. Una volta si diceva, sbagliando, “cerchiamo di avere un figlio per salvare il rapporto di coppia”. In realtà il figlio, spesso e volentieri, esaspera le criticità di una coppia».
I primi due mesi dopo il parto sono stati difficili, nel libro Federica parla di “baby blues”.
F. «Sono stata vicina alla depressione. Credo sia iniziato tutto da un parto così complicato: quando ho preso la bambina in braccio ero già stanchissima. È stato un accumulo di stanchezza. Quindi i primi due mesi sono stati molto difficili. La prima notte in ospedale, guardando mia mamma, mi sono messa a piangere. Non so perché stessi piangendo, e questa cosa si è protratta nel tempo: sempre la sera, sempre a un certo orario, con accensioni che non capivo neanche da dove venissero. A un certo punto scoppiavo in un pianto dirotto, e non sapevo perché. Poi abbiamo scoperto che era questo “baby blues”, che per fortuna non è mai sfociato in una depressione post partum, ma è appena un gradino sotto. Anche gestire questa cosa non è stato facile. Per fortuna non ho vissuto uno degli effetti della depressione: il rifiuto di mia figlia. Anzi, allattare mi faceva stare meglio; anche se aggiungeva altra fatica. E poi Matilde nei primi due mesi non ha mai avuto sonno».
Che tipo è?
F. «Come il suo nome. Tutte le Matilde che incontriamo sono così».
M. «In più è capricorno… Matilde è un nome da guerriera».
Ed è figlia di due campioni di nuoto. Nuoterà?
F. «Già nuota, da quando aveva due mesi, ma solo per una questione legata alla sua sicurezza: l’acqua è un elemento che noi non sappiamo dominare nella nostra quotidianità; sapere averci a che fare, sapere come sconfiggere la difficoltà quando ci si è dentro, è essenziale. Dall’esterno c’è molta curiosità, si pensa alla continuazione della dinastia… Noi stiamo cercando di passare a Matilde la nostra passione. Matteo ci proverà con altri sport».
M. «Certo, ma lo sport non è un diktat».
F. «Certo che lo è».
9 novembre 2025
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