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Nella musica italiana ci sono pochi personaggi controversi come Piero Pelù. Non a livello umano – cioè, non che abbia la fedina penale sporca – ma a livello di eredità artistica: dal 1980, anno del debutto con i Litfiba, ha fatto tutto e il contrario, cadendo più volte in contraddizione. Con la prima formazione della band suonava new wave, con capolavori come il primo album, Desaparecido rigorosamente underground. Con la seconda, nei novanta, in cui era l’unico gallo nel pollaio con Ghigo Renzulli, passò all’hard rock, con grandi riscontri commerciali e risultati creativi, a detta dei fan storici, non sempre all’altezza, un po’ tamarri, ma godibili (El Diablo). Da solista, i suoi dischi sono stati di mestiere, più nobili nelle intenzioni che nel risultato. In mezzo, Sanremo, canzoni enormi contro la guerra (Eroie nel vento) e altre bruttine come Il mio nome è mai più con Jovanotti e Ligabue (1999), più scioglimenti e ritorni dei Litfiba, l’ultimo nel 2022, “definitivamente”, salvo riunirli per l’ennesimo tour celebrativo nel 2026. E poi le matite “cancellabili” alle elezioni e il resto. Qual è il vero Pelù? L’alto o il basso? A quale dobbiamo credere? Al grande rocker (non rockstar, ci tiene a dire lui) o alla macchietta che alcuni raccontano online?
La guerra di Piero
Prova rispondere Rumore dentro, un documentario al cinema dal 10 al 12 novembre, con regia di Francesco Fei. Pelù ha un ruolo attivo, ne ha scritto il soggetto e ci si racconta in prima persona, non aspettatevi chissà che processi, solo una telecamera che lo segue nel privato (si vedono belle scene di “nonno Piero”, ora che la figlia più grande gli ha dato dei nipoti) in uno dei momenti più difficili: l’incidente alle orecchie avuto in studio di registrazione, che gli ha causato l’acufene e che, dopo il trauma, l’ha costretto a rimandare un tour prima, e a una lunga riabilitazione poi. Osservarlo da vicino – al netto di una trama Pelù-centrica, sarebbe bello, prima o poi, un grande documentario sui Litfiba – fa luce su tanti aspetti, come un momento di pausa che riflette sul passato. Su tutti, si capisce questo: è ancora un ribelle. Parola grossa, certo, non in senso morale – c’è tutto un popolo del web che gli rinfaccia l’adesione al “mainstream”, tra prese di posizione per i vaccini e contro i femminicidi, vabbè – ma come artista, per uno che negli anni ha comunque assecondato le dinamiche del mercato, si è reso commerciale e, alla fine, tradito.
Eppure. Eppure il parallelo dietro Rumore dentro, peraltro sviluppato bene, è con gli inizi. Negli anni ottanta era un ribelle perché suonava una musica, un certo tipo di rock, che in Italia non faceva quasi nessuno, perché nuotava controcorrente, perché è stato un apripista e, soprattutto, si è sbattuto tantissimo per portare quel mondo fuori dalle cantine di Firenze in cui si esibiva. Oggi, è un ribelle perché non si arrende all’acufene, e poi allo scorrere del tempo: pure ora che il successo è diminuito rispetto agli anni d’oro, pure ora che il rock è globalmente morto e ci si deve accontentare degli scampoli, dimostra una passione e una dedizione rare. Cambiano i termini, chiaro, così come l’età. Essere ribelli a vent’anni non è come esserlo a sessanta. E qui sembra un Don Chisciotte contro i con i mulini a vento: al suo fianco sono rimasti in tanti e, a un certo punto, il gesto è quasi nobile.
Un artista da rivalutare
È qui per soldi? Si è venduto al sistema che combatteva? Boh. Non ci sono risposte e, forse, non ha neanche senso cercarle. Ciò che ci ricorda semmai Rumore dentro è che vale la pena dare ancora ascolto a Pelù. Per carità, a livello d’immagine si è fatto terra bruciata intorno e ha perso un po’ di credibilità, tanto che oggi lo si descrive come meme, macchietta – insomma, il Pelù che a Sanremo ruba la borsetta alla signora in platea. Ma vederlo sullo schermo, mentre gira per Firenze e ricorda racconta dei suoi esordi, ci dice che tutto quello non può essere cancellato, né dato per scontato, né non essere riscoperto, per tutti quelli che non sanno di che si parla.
Al di là che si tratta comunque di un frontman che tutt’ora fa scuola, lo spessore degli album dei Litfiba dal 1980 al 1995 resta gigantesco, fatto di canzoni seminali per il nostro rock, che spaziano dalla new wave al rock più diretto, dalla provocazione alle atmosfere sognanti, soprattutto unendo un certo suono all’inglese e all’americana con l’immaginario italiano e mediterraneo. Se spesso, ecco, si sono tacciate le nostre rockstar di essere derivative, i Litfiba sono stati unici, introvabili altrove, e l’insistenza di Pelù nel portarli avanti, comunque, è merce rara. Certo, ha commesso errori come tutti: non è il puro che si profilava alle origini, ma in tanti, specie nel suo mestiere, cambiano e si sporcano le mani, spesso senza lasciare la loro stessa scia. Il problema è che la loro eredità è nota agli appassionati, che sono tanti, ma al di fuori di lì non viene mai presa in considerazione. Di nuovo, perché Pelù e soci non l’hanno gestita bene, ma non ci si può fermare al meme. Sono i padri del rock italiano, non la parodia di sé stessi. La soluzione? Ripartire almeno da Rumore dentro. E soprattutto, la prossima estate, andarli a sentire per la loro ennesima reunion. Stiamo al gioco, su, ne vale la pena.