di
Alessandra Muglia
Budapest perno dell’ultradestra che mina la Ue
Cosa avrà mai fatto Viktor Orbán per far cambiare idea a Donald Trump sul petrolio russo? Soltanto una settimana prima, a bordo dell’Air Force One, di ritorno dal tour asiatico aveva giurato: «Non concederò nessuna esenzione a Orbán per gli acquisti di petrolio russo». Venerdì il leader magiaro è stato invece ricevuto alla Casa Bianca con tanto di elogi. La sua richiesta era nota: da tempo va ripetendo (lo ha puntualizzato anche nella sua recente visita in Italia) che il suo Paese, senza sbocchi sul mare, non ha alternative al greggio russo e che la sostituzione delle forniture scatenerebbe un collasso economico. Trump lo ha accolto coprendolo di lodi — «un grande leader di un grande Paese» — e ha acconsentito alla sua richiesta di deroga: «a tempo indefinito» per Budapest, «per un anno» ha precisato la Casa Bianca. Comunque, un colpo basso per l’Ucraina che sperava nel crollo degli introiti usati da Mosca per finanziare la guerra.
«Le relazioni tra i nostri Paesi entrano in una nuova età dell’oro» ha gongolato Orbán. In realtà più che di un upgrade del loro rapporto, appare una conferma dell’affinità politica che lega i due leader sovranisti. Perché se è vero che Orbán ha cercato di ingraziarsi Donald arrivando con un’offerta per l’acquisto di combustibile e tecnologia nucleare Usa, mettendo quindi sul tavolo della Casa Bianca vantaggiosi accordi commerciali, a far cambiare idea a Trump «più che il business questa volta è stata soprattutto la volontà di offrire al suo migliore alleato in Europa un grande supporto politico» osserva Zsuzsanna Vegh, politologa ungherese del German Marshall Fund, intervenuta di recente al Budapest Forum sulle Democrazie Sostenibili. Il presidente Usa non ne ha voluto indebolire la leadership in vista delle elezioni politiche di aprile, dove Orbán risulterebbe — per i sondaggi — in difficoltà, per la prima volta in 15 anni al potere. «La vera domanda ora è: quanto ci crede davvero Trump a queste sanzioni? L’esonero concesso all’Ungheria ne mina pesantemente l’efficacia» considera Vegh.
La mossa di Washington è destinata poi a indebolire le sanzioni europee sugli idrocarburi russi (stop totale sul petrolio da gennaio e del gas dal 2027). L’Unione si ritrova di nuovo messa sotto scacco da Orbán, pochi giorni dopo l’impasse sugli asset russi: dopo aver ribadito il suo no all’ingresso di Kiev nella Ue, il leader magiaro si oppone all’uso dei beni russi congelati per sostenere l’Ucraina come proposto dalla Commissione Ue, «non siamo ladri» ha osato.
Orbán piccona ma resta dentro l’Europa: non solo attirato dai fondi che riceve (solo in parte bloccati per via dell’erosione della democrazia) ma per trasformarla — alias indebolirla — dall’interno. «La destra globale si sta coordinando a un livello mai visto, e Orbán e il suo partito, Fidesz, cercano di posizionarsi come forza centrale in quella che chiamano destra nazional-conservatrice in Europa» osserva Vegh. Il Cpac, organizzazione della destra Usa, da 5 anni ogni primavera ha uno spin-off ungherese, primo debutto in Europa.
Ora la strada per la riconferma è in salita ma Orbán può contare anche sul suo ingente patrimonio per foraggiare una campagna elettorale agguerritissima. «La sua famiglia è la più ricca d’Ungheria, questo arricchimento si intreccia con la sua carriera politica: è iniziato già all’inizio degli anni ‘90, canalizzava i fondi del partito in alcune aziende collegate a suoi familiari» racconta al Corriere Zsuzsanna Szelenyi che, da membro di Fidesz nei suoi primi anni di vita, ha assistito in prima persona al passaggio del partito dal liberalismo al nazionalismo populista: in «Tainted Democracy, Viktor Orbán and the Subversion of Hungary» offre un resoconto dall’interno di questa involuzione.
9 novembre 2025
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