di
Daniele Manca

Il ministro dell’Economia al Festival Città Impresa di Bergamo: «Interveniamo sul ceto medio perché eravamo già intervenuti su quelli più svantaggiati»

La platea è quella del festival Bergamo Città imprese. È da lì che parla il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. In uno di quei tanti triangoli industriali dove si è costruita la competitività italiana che ci ha permesso di giocare una partita che va ben oltre i confini del nostro Paese. Competitività che oggi è minacciata da una geopolitica continentale e non che ha oltrepassato i confini della diplomazia e che usa i meccanismi economici come leve per accrescere politiche di potenza. Ma se pensavamo che fosse la politica tariffaria, i dazi americani, a rappresentare l’ostacolo maggiore alla crescita, ben altri rischi sembrano essere più preoccupanti stando alle parole del ministro.

Negli ultimi mesi si è registrata un’aggressività spregiudicata da parte della Cina. Cosa che rischia di provocare in Europa una progressiva deindustrializzazione. La preoccupazione è palpabile negli appelli delle imprese italiane e non solo. Qual è la strategia del governo italiano a livello internazionale rispetto a un tema che è economico ma anche di geopolitica?
«Questo è il vero tema di discussione che deve essere portato all’attenzione dell’Europa — risponde il ministro —. Lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo in questi mesi e settimane. Abbiamo rimesso al centro i temi che interessano la nostra industria. Pensi alla tassazione dell’energia, in particolare del gas, che rischia di spiazzare completamente le nostre imprese. Pensi ancora alle discussioni sulla nuova politica tariffaria americana. A giudicare dai dati dell’export negli Stati Uniti, i dazi sembrano aver creato meno problemi di quanto atteso. Ma, mentre discutevamo di cosa faceva l’America, c’era un’altra minaccia che si stava creando. E arrivava dall’Asia. L’industria cinese che sta vedendo venir meno il mercato americano ha dei problemi di ricollocamento dei propri prodotti. E così punta sull’Europa. Lo fa utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione. Alcuni palesemente vietati dalle normative europee: dumping, tassazione di favore, regole sociali e ambientali che non vengono rispettate. Temevamo la politica aggressiva americana sui dazi, mentre i nostri mercati erano nel frattempo così aperti e indifesi di fronte a un’altra aggressività: quella asiatica. Per questo ci siamo mossi anche a livello del G7. È chiaro che si devono ridiscutere le regole del commercio a livello globale. Non può esserci un accesso libero ed indiscriminato soltanto ad alcuni mercati come il nostro».



















































Stando ai dati la situazione è già difficile. L’Europa ha registrato un più 28% delle importazioni dalla Cina …
«E infatti non è un problema solo italiano. È stato messo in crisi anche il modello tedesco sul quale la Germania ha basato il suo successo negli ultimi venti anni. Modello che poteva contare su energia a basso costo importata dalla Russia e contemporaneamente forti esportazioni verso la Cina. La bilancia commerciale tedesca mostra come quel modello sia saltato. A essere messa a rischio non è la sopravvivenza dell’industria italiana ma l’intera industria europea».

Anche l’alto costo dell’energia resta però uno dei problemi dell’industria nazionale. Come se ne esce?
«L’Ecofin di questa settimana dovrà trattare questo punto. Cercheremo di difendere le nostre buone ragioni rispetto al ventilato aumento di tassazione sul gas. È una prima battaglia su cui speriamo altri si uniscano. Altrimenti sarebbe come mettere la pietra tombale sull’industria italiana a partire dal 2033 in avanti. Il gas è una fonte di energia per la transizione. Ed è per questo che servirà una ricalibrazione a livello internazionale anche degli obiettivi ambientali. Obiettivi su cui siamo tutti d’accordo. Devono però essere combinati con la necessità di mantenere la competitività. Non solo. Ci deve essere una parità di condizioni anche a livello europeo. L’utilizzo dei sussidi pubblici non può essere rimesso alla disponibilità degli spazi fiscali dei vari Paesi. La Germania non fa mistero di voler intervenire in modo massivo con sussidi a favore dell’industria tedesca. Ma non si può dimenticare che questo è vietato dalla normativa europea».

Tornando nei confini italiani si ha la sensazione, a partire dagli imprenditori, che i suoi ripetuti appelli alle banche affinché sostengano il mondo produttivo con il credito non siano stati ancora colti.
«Pensiamo che le banche debbano tornare a concentrarsi sull’attività creditizia tradizionale. Per un sistema industriale come il nostro, il credito bancario continua a essere fondamentale. È stato tenuto in poca considerazione il fatto che lo Stato abbia fatto la sua parte con il sistema delle garanzie pubbliche attraverso Mediocredito centrale e SACE che accompagnano il credito bancario. Vede, per una banca è molto più semplice guadagnare e fare profitto con la gestione statica e non dinamica dei patrimoni che lì sono depositati. Ma se guardiamo all’economia reale, è ben più importante, anche sotto il profilo sociale e come dice la Costituzione, fare sì che quei capitali siano messi in moto con l’attività di credito. Qualche minimo segnale si sta registrando, ma continueremo a lanciare questi messaggi. Dal sistema delle garanzie alla riforma del mercato dei capitali, lo Stato si è mosso. Ma per il tipo di economia che contraddistingue l’Italia, continua a essere determinante l’atteggiamento delle banche. Serve un approccio più consapevole del momento storico economico che stiamo vivendo».

Eppure sulla manovra ci sono stati rilievi da parte dell’Istat, dell’Ufficio parlamentare di bilancio della Corte dei conti e anche della Banca d’Italia. Qualcuno ha sintetizzato: è una manovra per ricchi.
«Bisogna capirsi su che cosa si intende per ricco. E se ricco è colui che guadagna 45 mila euro lordi all’anno…. Forse l’Istat, la Banca d’Italia hanno una concezione della vita un po’ diversa. Noi siamo intervenuti quest’anno sul ceto medio perché eravamo già intervenuti negli anni scorsi sui ceti più svantaggiati. Abbiamo messo circa 18 miliardi l’anno scorso e li abbiamo rimessi quest’anno per i redditi inferiori a 35 mila euro. Abbiamo poi fatto uno sforzo ulteriore e abbiamo coperto quest’anno la fascia di redditi fino a 50 mila euro. È una logica assolutamente sensata se si considera l’orizzonte pluriennale. Mi spiace che le analisi si siano concentrate invece sull’anno dimenticando che noi abbiamo reso stabili e definitivi i tagli del cuneo contributivo introdotti precedentemente. Si fa presto a giudicare i comportamenti di chi si assume la responsabilità di far quadrare il cerchio con risorse limitate e in una situazione dove alle guerre armate si aggiungono anche quelle commerciali. Eppure, e anche questo è stato poco sottolineato, per incentivare i rinnovi dei contratti di lavoro siamo stati capaci di introdurre aliquote ridottissime per redditi fino a 28 mila euro».

Anche se resta l’incognita di una crescita ben poco entusiasmante…
«Uno degli interventi che mi auguro si possa migliorare durante la discussione in Parlamento è quello relativo agli ammortamenti e ai super ammortamenti perché sono quelli che danno un impulso quasi automatico alle imprese per rinnovare, investire, migliorare. Renderli pluriennali darebbe un bel segnale agli imprenditori perché fornirebbe loro un quadro di certezze nel tempo nel quale poter programmare gli investimenti che sono il motore della crescita. Se devo sbilanciarmi, su questo cercheremo di trovare una soluzione».

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9 novembre 2025