di
Aldo Cazzullo
Il vincitore di tre ori olimpici e la sua autobiografia: «Ho sempre suscitato amore e odio. Il campione doveva essere montanaro, io non lo ero»
Alberto Tomba, la sua autobiografia, “Lo slalom più lungo”, è piena di sorprese.
«Semplicemente perché ero, e sono, molto diverso da come mi avete descritto. Ho sempre odiato quando mi chiamavano sbruffone. Detestavo essere definito guascone».
Beh, saliva sullo skilift al contrario.
«Sa perché l’ho fatto? Perché non volevo dare le spalle ai tifosi che mi acclamavano. Così mi sono girato, spalle alla montagna, faccia a valle. E sono pure caduto…».
È vero che tra le due manche del gigante di Calgary, prima medaglia d’oro olimpica, mangiò una fetta di panettone?
«È vero, ma mica l’ho finito… Lo so, qualsiasi allenatore lo proibirebbe. Ma io ero fatto così. Non volevo passare il tempo tra le due prove a macerarmi. Preferivo stare in mezzo alla gente. E mangiare il panettone, se avevo fame. È la mia natura, il mio modo di scaricare la tensione. Mi piaceva scherzare, fare le foto, firmare gli autografi. Poi magari andavo di fretta, dovevo dire di no a qualcuno, e i giornali scrivevano: Tomba evita i tifosi».
La gente la adorava.
«E io adoravo loro. I miei più grandi fan sono ancora adesso i miei più grandi amici. Enza, che quando mi ruppi la clavicola in SuperG a Lech, in Austria, pianse. Loris, l’inventore di Tombaland. Chicco, che mi seguiva pure in Giappone. Claudio, il fotografo del gruppo, per cui ho girato il podio».
Girato il podio?
«Adelboden, Svizzera, Coppa del Mondo 1995: vinco per la prima volta il gigante, davanti a Jure Kosir. Il mio amico Claudio è lì, con la moglie. Solo che il podio dà le spalle al pubblico. Lui fa partire il coro, sulle note di Guantanamera: “Giraci il podio, Alberto giraci il podio…”».
E lei?
«Io mi sono fatto aiutare da Jure, e ho girato il podio in direzione dei tifosi».
C’erano quelli di Castel dei Britti e quelli di Sestola.
«Da Castel dei Britti portavano i salumi, dall’Appennino piadine, crescentine, tigelle… Con il giro stretto ci vediamo ogni due mercoledì. Ogni anno ci ritroviamo in tanti per festeggiare una ricorrenza, nel 2026 saranno i trent’anni dei Mondiali di Sierra Nevada».
Oro in speciale, oro in gigante.
«Ma ci siamo trovati anche per ricordare Furio Focolari, che non c’è più, insieme con sua figlia».
Il telecronista delle sue vittorie.
«Con i telecronisti ho sempre avuto ottimi rapporti. Alfredo Pigna nell’estate del 1988 portò tutta la squadra azzurra sul suo veliero. Bruno Gattai e Carlo Gobbo sono due amici».
Altri giornalisti meno.
«Il campione doveva essere montanaro, silenzioso. Il bolognese, il cittadino, il carabiniere, dava fastidio. Non soltanto ai giornalisti. Al sistema».
Lei ha vinto pure i Mondiali militari, più volte.
«Ci tenevo tantissimo, all’Arma. E i generali erano felici».
Nel 1995 riportò la Coppa del Mondo in Italia, vent’anni dopo la quarta Coppa di Gustavo Thoeni.
«All’ultima gara, nell’intervallo tra le due manche, feci una discesa in canottiera, pantaloncini e cravatta. Era il mio modo di salutare la gente. Farla divertire mi è sempre piaciuto».
Ma nel libro lei scrive che altre Coppe erano moralmente sue, e andavano cercate a casa di Girardelli, Zurbriggen, Accola.
«Ho perso Coppe in cui avevo vinto nove gare e Zurbriggen due. I regolamenti mi danneggiavano. Le combinate avevano troppo peso».
Nel libro lei scrive che qualche volta i colleghi di Zurbriggen non si erano dannati l’anima per superarlo.
«Lo notai a Saalbach, nello speciale decisivo per la Coppa del Mondo del 1988. In troppi scesero lenti, svogliati. Qualcuno si è fermato proprio, pur di non far vincere il cittadino. Poi battei Zurbriggen nel parallelo finale; ma non valeva per la classifica».
Com’era davvero Alberto Tomba?
«Un timido. E lo sono tuttora».
Scrivevano che trascurasse lo sci per le discoteche.
«Frottole. Mi sottoponevo ad allenamenti massacranti. Passavo le estati sui ghiacciai, a tremila metri di quota. Sulle Ande, in Argentina, in Cile. La sveglia all’alba a trenta gradi sottozero, il vento in faccia, il gelo, i panorami infiniti. Mi piaceva».
In macchina guidava sempre lei.
«Da passeggero non avrei riposato comunque: non mi fidavo di nessuno. Se non avessi guidato io, magari non sarei qui a raccontarlo. Si partiva, che so, dalla Val d’Isère, e si arrivava in Slovenia, o in Austria, dopo dieci ore, su e giù per le valli alpine. Un po’ di stanchezza la accumulavo. Per raggiungere Lienz, nel ’99, guidai undici ore di fila; entrai in albergo a mezzanotte, il mattino arrivai secondo».
È vero che aveva giurato alla mamma di non correre la libera?
«Neanche questo è vero. In allenamento andavo a centoventi all’ora, facevo salti di cinquanta metri. Non avevo paura. Certo, ero uno slalomista, non un discesista. Ho visto troppe carriere stroncate, gambe rotte, vite sportive distrutte. Sono stato il primo a indossare il casco, anche in gigante: passavo molto vicino ai pali e rimediavo craniate pazzesche. Mi prendevano in giro; adesso il casco lo portano tutti. E comunque, dopo la caduta e la frattura, sono tornato a fare i SuperG».
Da ragazzo l’altra sua grande passione era il motocross.
«Passavo ore e ore in sella, sui calanchi. Sci d’inverno, motocross d’estate. Forse mi divertivo di più con la moto. Poi, andando in Nazionale, ho dovuto smettere».
È vero che riusciva a sciare pure nel giardino di casa?
«Con mio fratello Marco lo ghiacciavamo con l’acqua, preparavamo una specie di trampolino, aspettavamo che tornasse nostra madre sulla jeep, poi ci saltavo sopra con gli sci».
E Marco?
«Aveva un po’ paura».
Da piccolo gareggiava a Cortina.
«Mi allenavo dalla mattina alla sera, con pausa pranzo al rifugio, doppia razione di pasta. E non vincevo. Solo sugli Appennini. Poi però mi sono rifatto anche sulle Alpi».
A 18 anni lei batté i campioni della squadra A al parallelo di Natale, a San Siro.
«Su una collinetta artificiale, vicina allo stadio. Era il 23 dicembre 1984, pettorale 9. Eliminai Paolo De Chiesa, l’ultimo grande della valanga azzurra, poi Edalini ed Erlacher in finale. Ma i giornali non scrissero il mio nome. Ricordo il titolo della Gazzetta: “Grossa sorpresa alla Montagnetta di San Siro, un azzurro della B beffa i grandi nel parallelo”. Il bolognese non poteva essere nominato. Lo so, ho un nome buffo…».
Non lo dica a me.
«…All’epoca non c’erano i social, non potevo replicare. Quell’omissione mi fece male. Ma durò un istante. Mi dissi: vincerò tante altre gare, e i titoli con il mio cognome arriveranno presto».
La rivelazione al Mondiale del 1987: bronzo in gigante. Poi una serie di vittorie in Coppa del Mondo. E i due ori olimpici di Calgary 1988.
«Eravamo nello Stato dell’Alberta. Non poteva finire diversamente».
Al ritorno la ricevette Cossiga al Quirinale.
«Mi disse che era un mio grande tifoso, che spostava gli appuntamenti politici per seguire le gare. Tornai da Roma a Bologna con un mio concittadino: Enzo Biagi. Era un’Italia di grandi personaggi».
Per lo speciale fermarono la finale di Sanremo.
«E dire che all’epoca c’erano davvero belle canzoni. Meno male che ho vinto».
C’era ancora Ingemar Stenmark.
«Il mio idolo. Un giorno a Sestriere disse: “Ora posso ritirarmi, Alberto ormai è imbattibile”. Una soddisfazione immensa».
Il suo grande rivale è stato Pirmin Zurbriggen.
«Grandissimo. Però a un certo punto si è ritirato pure lui. Marc Girardelli invece ha continuato. E andava forte anche in slalom. Ho iniziato con Stenmark, ho incontrato Thomas Stangassinger, e sono arrivato a Herman Mayer, Herminator: mi sono battuto contro tre generazioni di sciatori».
La allenava Gustavo Thoeni.
«Dall’89 al ‘96».
Eravate molto diversi.
«Non così tanto. Le ho detto che sono un timido. Poi certo Gustavo era silenzioso, io no. Ci completavamo. C’era feeling, confidenza. Ha sempre avuto fiducia in me, mi ha sempre sostenuto. Mi caricava. Filmavamo gli allenamenti, studiavamo i video insieme: la spinta in partenza, la linea, i dossi, le doppie, le triple… Poi in ski-room, a controllare lamine, scarponi, attacchi, bastoncini, guanti… Quando c’era da rimontare, mi ricordava la sua leggendaria seconda manche ai Mondiali di St. Moritz».
Anche le rimonte di Tomba erano leggendarie.
«Alle Olimpiadi del 1994 a Lillehammer dopo la prima manche dello speciale ero dodicesimo, con quasi due secondi di distacco, e in mezzo c’erano tutti i migliori. Avevo sbagliato la scelta del pettorale, il numero 1: senza riferimenti, e c’erano 28 gradi sotto zero. Finii secondo, a 15 centesimi dall’oro. Se c’era ancora una porta, vincevo pure quella gara».
Lei sapeva dare il meglio nei momenti decisivi.
«Ma ero un essere umano. Anche a me batteva forte il cuore. E poi la tv schiaccia la pendenza, il telespettatore non si rende conto di cosa significa gettarsi in pista: è come cadere in un burrone. Quanti ne ho conosciuti, che in allenamento facevano faville, e al cancelletto di partenza si bloccavano. Io al cancelletto mi esaltavo».
Thoeni mi ha detto la stessa cosa: «In allenamento facevo i tempi degli altri, a volte peggio. In gara succedeva il contrario».
«Lo capisco. Anch’io amavo competere».
Deborah Compagnoni com’era?
«Siamo sempre stati amici. Quando si ruppe il ginocchio nel gigante di Albertville 1992, dopo aver vinto l’oro in SuperG, le telefonai. Di solito gli atleti sono scaramantici, non parlano volentieri di infortuni. Ma sentivo il bisogno di starle vicino. Così le dico: “Dobbiamo vederci per festeggiare”. Come festeggiare? “Dimentichi che io e te abbiamo vinto due medaglie d’oro olimpiche”».
Ad Albertville lei rivinse il gigante.
«E rivincere è molto più difficile che vincere. Soprattutto nello sci, che si gioca sui centesimi, sui millimetri: basta una gobba, un’inforcata, una lastra di ghiaccio, e sei fuori. Infatti alle Olimpiadi non era mai successo che un atleta conquistasse due ori di fila nella stessa specialità. Dopo il traguardo mi inginocchiai, presi la neve con le mani nude, mi lavai la faccia. Una magnifica sensazione di libertà. Albertville: la città di Alberto».
I giochi di parole le sono sempre piaciuti.
«Ero bravo nelle rime. Sono Alberto, se non vinco non mi diverto. Nel 1988 vinsi nove gare di Coppa: la prima buona rima, non c’è il due senza il tre, la quarta vien da sé, la quinta è già vinta, la sesta è una festa, la settima vittoria continua la storia, l’ottava è la mia schiava, la nona è una sinfonia che suona…».
Incarnava lo spirito degli anni 80.
«Era bello, no? Gli italiani stavano bene. Erano finiti gli anni di piombo, potevamo essere allegri. Lo sci era considerato uno sport cupo, triste; divenne uno sport popolare. Scommettevano nei bar. Sulla Gazzetta sfrattava il calcio dalle prime pagine».
Lei curava il look.
«Lo riconosco: la fascia, gli occhiali. Facevo attenzione ad abbinare il colore della tuta e quello degli scarponi».
Tomba faceva sempre notizia.
«E se le notizie non c’erano, se le inventavano. Scrissero che avevo una storia con Katarina Witt, la pattinatrice, solo perché a Calgary ero andato a vedere la sua gara. Mi chiamavano Sex Bomb… che stupidaggini. Gioele Dix mi imitava salutando le ragazze: “Bella gnocca!”. Ma non è vero, non mi sono mai permesso».
Come le salutava?
«Semmai, “bella bimba”. Come nella canzone di Achille Lauro: “Ehi, bambina…”. Arrivarono a fotografarmi nudo in sauna, e a pubblicare le immagini. Una vigliaccata. Mi attaccavano persino per i canguri».
Canguri?
«Nella proprietà di famiglia mio papà aveva la voliera con i pappagalli. Mi accompagnò alle gare in Australia, e cominciò ad allevare i canguri, ma non australiani, europei. Stavano benissimo. Innocui, buoni. Una volta la porta del recinto restò aperta, qualcuno uscì fuori, fu notato, ne nacque una polemica. Così ci hanno portato via i canguri. Morirono in una settimana».
Perché vi hanno portato via i canguri?
«Invidia. Potrei raccontarle tante altre piccole storie come questa. Non avevo tutti dalla mia parte. Ho sempre suscitato amore e odio. Più amore, per fortuna».
Come incontrò Martina Colombari?
«Ero giurato a Miss Italia. Vinse lei, a mani basse. Era bellissima, e fu una storia bellissima. Non aveva ancora la patente, la andavo a prendere a scuola… È durata quattro anni».
Come mai è finita?
«Troppa pressione mediatica. Sempre i riflettori addosso. Mai un poco di privacy. Io ero sempre in giro, lei aveva avuto successo nel suo mestiere. Ci vedevamo poco».
Posso chiederle perché non si è mai sposato?
«Lasci perdere. Poi estrapolano una frasetta che rimbalza sui social. Io detesto i social. Infatti non li ho. C’è troppo odio in giro. Guardi questa tragedia dei femminicidi. Non finiscono mai, uno tira l’altro. Mi turba molto».
Alberto, si lasci andare. Ho la sua stessa età. Anche io ho pianto quando lei si ruppe la clavicola in SuperG.
«Sì, un figlio sarebbe un sogno. Ma quanti matrimoni finiscono prima del tempo? Quante coppie sono saltate? Il novanta per cento? Viaggiavo tanto, come i marinai… Ma non sposarmi non è stata una scelta».
Lei è sempre stato molto legato alla sua famiglia.
«Papà ci ha lasciati l’anno scorso. Ricordo tutti i sacrifici che ha fatto per me. Mi portava a sciare sull’Appennino: sul Corno alle Scale, sul Cimone, sull’Abetone, a Cerreto Laghi… Poi, quando ho cominciato con la Nazionale ma non guidavo ancora, mi accompagnava ai caselli dell’autostrada, a Piacenza a Brescia a Verona, dove mi univo alla squadra… Sono immensamente grato a lui e a mamma. Mia sorella Alessia è più piccola di dieci anni, ma ci siamo sempre voluti bene. Come con Marco».
Perché si è ritirato ancora giovane, a 31 anni?
«Ero stanco. Stressato. Gli allenamenti, le gare, i viaggi in macchina. La pressione continua. Dover vincere sempre. Alla prima caduta diventavo Alberto Tombola. I francesi scrivevano: “Tomba est tombé”. La macchina della notorietà. Non ti serve il body guard, ma l’avvocato, il commercialista… Io ero umile, semplice, genuino; ma qualcuno, pur di vendere, scriveva il contrario. Però smettere non è facile».
La morte sportiva.
«Devi scegliere il momento giusto. Lasciare quando sei in vetta, non mentre stai precipitando. Io ho lasciato dopo aver vinto la mia cinquantesima gara di Coppa del Mondo. Per il fan club, cinquanta più una: il parallelo in cui battei Zurbriggen, quello che non valeva per la classifica».
Ha mai pensato di tornare?
«Un pensierino l’ho fatto per le Olimpiadi di Torino. Ma avevo già trentanove anni, ero fermo da troppo tempo. Così ho fatto il tedoforo. Entrare nello stadio con la torcia, ascoltare il boato della folla, è stato stupendo».
Sarà lei ad accendere la fiaccola di Milano Cortina?
«Non lo so. Le piste saranno meravigliose. Le strade un po’ meno».
Scia ancora?
«Sci alpinismo. La fatica, la montagna, il silenzio. La mia passione. Come le bottiglie di vino che colleziono, e l’olio che produco. Ma non lo vendo; solo per gli amici».
Goggia o Brignone?
«Entrambe. Sono due tigri. Combattenti straordinarie. Sofi ha vinto l’argento meno di un mese dopo essersi rotta la gamba. Ora Fede, dopo una stagione in cui ha vinto tutto, sta recuperando da un infortunio grave, spero che recuperi per Cortina. Le ammiro moltissimo».
Cambierebbe qualcosa della sua vita?
«Non una virgola. È stato tutto bellissimo».
10 novembre 2025 ( modifica il 10 novembre 2025 | 07:18)
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