A 40 anni dalla deflagrazione che ha spaccato la sua famiglia, Anna Negri torna davanti al padre Toni, con una telecamera accesa, e decide di non tirarsi indietro. Nel documentario Toni, mio padre, presentato a Venezia e al cinema dal 20 novembre con Wanted, mescola pubblico e privato, storia e ferita personale, per affrontare una relazione mai pacificata. Nessun mito, nessuna vendetta: solo due persone, un padre e una figlia, che provano a parlarsi davvero. Anna Negri ha scelto di mettersi davanti a suo padre e non dietro la macchina da presa. In Toni, mio padre, non cerca di assolvere, condannare o rimettere a posto i conti della Storia. Cerca qualcosa di più difficile: un contatto vero, spogliato di filtri. Toni Negri è stato uno degli intellettuali più importanti del Novecento italiano. Filosofo del lavoro, fondatore di Potere Operaio, docente di Filosofia del diritto, figura centrale del pensiero marxista eterodosso, è stato travolto da accuse gravissime: nel 1979 fu arrestato con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio Moro e mente occulta del terrorismo. Accuse poi cadute perché infondate, ma che gli costarono la prigione, l’esilio, e una frattura profonda nella sua vita pubblica e privata. Anna Negri quella frattura l’ha vissuta in pieno. E oggi la mette in scena con lucidità, pudore e una sincerità rara. Il film non è solo un ritratto di un padre ingombrante: è una domanda aperta, un tentativo di capire cosa resta, davvero, dopo la militanza, la prigione, l’assenza. In questa intervista esclusiva per Virgilio Notizie racconta il percorso che l’ha portata a girare il documentario, le scelte difficili, la vergogna, la riconciliazione e il desiderio, ora, di tornare a ridere.

Perché ha deciso di girare questo film proprio ora? Perché non prima?

“In realtà io sono stata costretta a girare… costretta nel senso emotivo, intendo. Mio padre era malato, e io avevo la sensazione che non ci sarebbe stato ancora per molto. Quindi sì, avevo già da due o tre anni l’idea di fare questo film, ma non riuscivo mai a iniziare davvero. Poi è arrivata questa urgenza, questo impulso, e lì ho capito che era il momento. Il tempo stringeva. Non potevo più aspettare”.

potere operaioUFFICIO STAMPA ECHO / KINOWEB.Emilio Vesce, Jaroslav Noak, Toni Negri e Alberto Magnaghi  al convegno di Potere Operaio all’Università di Bologna, 1970

Il film parte da un racconto molto personale ma diventa presto una riflessione collettiva, sulle ferite generazionali. Era qualcosa che aveva in mente fin dall’inizio, o ci è arrivata lavorandoci?

No, io all’inizio volevo fare un biopic. Mi interessava raccogliere la memoria di mio padre, perché è una memoria importante, una figura storica che meritava un documento. Ma mentre facevo le domande – e le facevo a lui, direttamente – continuavamo ad avere dei conflitti. Tanti conflitti. E a un certo punto ho capito che la relazione tra me e lui era il vero dispositivo narrativo. Era lì che doveva passare la storia. Allora ho deciso di mettermi nel film, di non restare dietro la macchina da presa, di non proteggermi. Volevo stare sullo stesso piano. Così ho chiesto a Stefano Savona, un mio caro amico e documentarista, di filmare lui”.

C’è una scena, nella parte finale, molto accesa, in cui partite dalla rivolta di Trani. Un confronto che è quasi “la scena madre”, usando un termine da sceneggiatori. È potentissima. Immagino non fosse preparata. È stato difficile decidere di lasciarla nel film?

“In effetti, io e la montatrice, Ilaria Fraioli, la chiamavamo proprio “la scena madre”, è vero. Ma no, non ho avuto la tentazione di staccare la camera, nemmeno lì. In quel momento ero completamente dentro. Il punto è che io non ero solo la regista, ma anche un soggetto del documentario. E lì, io volevo davvero delle risposte. Non era per il film. Le volevo per me. Era un’urgenza personale. C’era sempre questo doppio livello, in tutto il processo: da una parte una mia ricerca esistenziale, dall’altra la realizzazione del film”.

E anche suo padre sembrava consapevole della forza di quella scena.

“Sì, certo. Tant’è che lui stesso, a un certo punto, dice: “Questa scena deve andare all’inizio del film”. Anche lui ne percepiva il peso: era dentro la scena, ma anche fuori. Proprio come me”.

C’è una frase o una scena in particolare che per lei rappresenta la vera riconciliazione con suo padre? Quel punto in cui ha sentito che qualcosa si era finalmente compiuto?

“Forse sì. Direi la scena finale. O meglio, la penultima scena, che poi è anche l’ultima che abbiamo girato. Siamo seduti uno accanto all’altro, ed è lì che lui mi dice: “Mi dispiace.” È un momento molto forte”.

Quanto tempo ha aspettato quel “mi dispiace”? Posso immaginare che sia una frase attesa da una vita intera.

“Eh sì, tutta la vita. Ed è una frase che in tanti si sono sognati di sentirsi dire. E non è mai arrivata. È anche per questo che penso che il film stia avendo una risonanza così forte con il pubblico. Perché quella frase, per molti, resta un’illusione, un’assenza. E invece io, in quel momento, l’ho sentita”.

L’ha aiutata, quella frase, anche ad affrontare il lutto? A superare la successiva perdita di suo padre?

“Sì, certo. L’elaborazione del lutto passa anche da lì. Perché il lutto è sempre legato, in un certo senso, a un sentimento di vergogna. Vergogna per la propria sofferenza, per il proprio dolore. E quando c’è un riconoscimento, quando qualcuno ti dice “sì, ho visto la tua sofferenza” o “mi dispiace”, allora non hai più bisogno di vergognarti. Quel riconoscimento ti permette di lasciarti andare, di affrontare il dolore. Di superarlo. Poi, forse, questa è una lettura un po’ psicoanalitica… ma la sento vera”.

La parola “vergogna”, che ha appena usato, mi sembra che attraversi tutto il suo film, anche quando non viene detta apertamente. Quanto senso di vergogna ha provato nel ripensare alla storia di suo padre? E quando ha smesso di provarne?

La vergogna c’è stata. Ma per un’accusa che in realtà era completamente inventata. Lui era accusato di essere una cosa che sapevamo benissimo non era. Ma il punto è che quella costruzione mediatica e giudiziaria era talmente potente che non potevi non subirne le conseguenze… C’è una scena, ad esempio, in cui racconto di quando ero su un treno, e avevo sempre paura che qualcuno mi chiedesse il mio nome. Non è che pensassi davvero di avere qualcosa da nascondere. Ma era tutto così montato, così distorto, che ti entrava sotto pelle. Anche se razionalmente sapevi che era tutta una montatura, ti restava addosso. E allora nasce una vergogna che non è genuina, ma indotta. Una vergogna costruita dagli altri, dall’opinione pubblica, dai giornali, dal sistema”.

toni negri e anna negriUFFICIO STAMPA ECHO / KINOWEB.

E quella vergogna indotta, poi, continua a vivere anche quando non dovrebbe più avere spazio…

Esatto. Anche se tuo padre viene poi eletto in Parlamento da 200.000 persone, anche se viene riconosciuto come figura pubblica importante… quella vergogna resta sotto pelle. È una specie di memoria fisica, una difesa automatica. Come la paura: diventa un meccanismo di protezione. È difficile scrollarsela di dosso”.

Questa è un’intervista, ma si ha anche la consapevolezza nel porle le domande che si stia toccando una ferita aperta…

“Però è proprio lì che entra in gioco l’arte. L’arte è lo strumento che ti permette di attraversare e superare queste cose. Quando riesci a fare qualcosa, a creare, allora tutti questi sentimenti trovano una loro elaborazione. Io avevo già scritto un libro su questo tema, poi ho provato a farne un film di finzione, ma non ci sono riuscita. Alla fine, ho girato questo documentario, molto low budget, ma è stato quello che mi ha permesso davvero di elaborare tutto. Anche perché era una cosa che doveva essere elaborata in modo pubblico: la ferita non era solo personale, era anche mediatica, collettiva, esposta”.

Infatti, non si ha mai la sensazione che lei voglia ribaltare l’immagine pubblica di suo padre, o fare un’opera riparatoria. Il film cerca una verità, quella con la V maiuscola.

Esattamente. Non volevo correggere niente. Volevo cercare una verità più profonda, più umana. Non era una questione di giustizia storica o politica, almeno non solo. Era una ricerca intima, personale, che poi, forse, può parlare anche agli altri”.

Lei nel documentario racconta anche che, dopo l’arresto di suo padre, non ha mai più vissuto con lui. Cos’ha scoperto, durante la lavorazione del film, che non sapeva? Cosa l’ha sorpresa di lui?

“Quello che ho scoperto è che anche lui era una persona traumatizzata. Dietro tutta quella facciata di durezza, di orgoglio, c’era anche una grande sofferenza. Lo sapevo già, forse, a livello razionale. Ma non lo sentivo emotivamente. Il vero cambiamento per me è stato questo: riuscire a sentire la sua sofferenza, non solo a intuirla. È stato un passaggio importante”.

Da fuori, per chi guarda il film senza conoscere tutto il contesto, sembra quasi un western. Un duello padre-figlia. Ma si può davvero parlare di vincitori e vinti in questo confronto?

“No, assolutamente no. Anzi, secondo me la cosa più bella del film è proprio questa: non ci sono né vincitori né vinti. È un film sulla relazione. Una mia amica americana mi ha detto una cosa che mi ha colpito: “È molto bello che tu non chiuda tutto come farebbero in un film americano”. In un film americano, ci sarebbe la riconciliazione finale, l’abbraccio risolutore. Qui no. Ci siamo noi, con le nostre ferite, le nostre idee diverse, ma ci accettiamo. Riconosciamo l’uno l’altro. E questo è sufficiente. È una forma di amore, anche questa”.

Come ha scelto i materiali da inserire? Nel film ci sono archivi, super 8, telegiornali, filmati amatoriali, immagini Rai… Come ha costruito il tessuto visivo?

“Raccontare una vita di novant’anni in novanta minuti era già un’impresa quasi impossibile. All’inizio abbiamo deciso di adottare una struttura più libera, quasi da flusso di coscienza. Volevamo che le cose si potessero accavallare, ma che ci fosse comunque un filo conduttore. E questo filo non era cronologico, ma emotivo. I materiali istituzionali (i telegiornali, i documenti Rai, gli articoli) rappresentano la “Storia con la S maiuscola”, quella che entra a gamba tesa nella vita delle persone. E poi c’è la mia storia, quella personale, rappresentata dai super 8 che ho girato quando avevo 18-19 anni. Erano già, in qualche modo, influenzati da quello che avevo vissuto, anche se allora non me ne rendevo conto. Abbiamo inserito anche filmati amatoriali d’epoca, che potessero confondersi con i miei, per dare un senso più universale. E poi c’è tutto un lavoro sulle foto del movimento, che sono una voce visiva non istituzionale, una contro-narrazione. C’è anche un’immagine astratta, un filmato che avevo girato per uno spettacolo teatrale di mia sorella. Mi piaceva molto e lei mi ha dato il permesso di usarlo. Il montaggio è stato molto libero, mlto creativo”.

Esporre pubblicamente la propria storia ha un rischio enorme. Qual è, per lei, il rischio più grande?

“Esporsi al pubblico ludibrio. Al beffeggio. Questa è sempre una paura. Poi, in realtà, ormai no. Non più. Anche se, ovviamente, ci sarà sempre qualcuno che ti giudica, che critica. Ma in fondo… sai, tutti mi dicono che sono stata coraggiosa a fare questo film. Ma io penso che il vero coraggio l’abbia avuto da ragazzina. Quando avevo 14 anni, vivevo da sola con mio fratello che ne aveva 11. Ci arrivavano lettere di minacce di morte a casa, anonime. Quelle sì che erano situazioni dure. Dopo aver vissuto quello, tutto il resto mi sembra gestibile”.

E il resto è stato davvero più semplice? Anche il suo percorso professionale, la formazione come regista, è stata più semplice dopo?

“Non lo so. Semplice no. Direi che all’estero stavo meglio. In Inghilterra, dove ero anonima. Qui in Italia sentivo sempre lo sguardo dell’altro addosso. Non venivo mai vista per quella che ero. Sempre in relazione alla storia di mio padre. Ed era una storia anche molto cupa, che non è mai stata elaborata collettivamente. Gli anni Settanta in Italia sono ancora un tabù. Non sono mai stati affrontati seriamente, né dalla politica, né dalla cultura, né dalla storiografia. Restano sospesi. Solo alcune persone, come i figli delle vittime e degli imputati, hanno provato a dare un senso a quel periodo, nella propria vita. Ma collettivamente, no. Non c’è mai stata una vera elaborazione. E questo pesa”.

C’è una presenza-assente molto forte nel film: sua madre. Se ne parla, ma lei non c’è. Che ruolo ha avuto per lei, in quegli anni, sua madre?

Mia madre è stata la mia famiglia. Quando tutto è esploso, quando la nostra famiglia si è deflagrata, lei è rimasta. Mio padre ha avuto un’altra vita, è stato in Francia tanti anni. Lei invece c’è sempre stata, per me e per mio fratello. È stata una donna eccezionale. Magari non aveva la notorietà di Toni, ma aveva un’intensità umana, emotiva, incredibile”.

anna negri

Cosa sente di aver ereditato da suo padre? E da sua madre?

“Penso anche di essere molto diversa da entrambi. Però qualcosa me l’hanno lasciata, eccome. Tutti e due avevano un grande senso dell’umorismo. E questa cosa si vede anche nel film: la capacità di cogliere l’assurdo, anche nelle situazioni più drammatiche. È una risorsa enorme. Da mia madre ho ereditato un’affettività fortissima. E da mio padre… la capacità di vivere le cose insieme, di condividerle, anche quando sono difficili. Ma forse ho ereditato anche delle cose che loro non avevano. O le ho trasformate. È un po’ così che funziona, no?”.

Il film parla anche di una forma di sconfitta. Come si racconta una sconfitta senza cadere nella nostalgia o nell’autocommiserazione?

“Intanto bisogna dire che non è la mia sconfitta. Semmai, è la sconfitta dei miei genitori, della loro generazione. Ma credo che mio padre ne parli con grande dignità. Ecco, questo è importante. C’è una dignità nel parlare di una sconfitta. Soprattutto quando si parla di rivoluzionari: per loro, la sconfitta è sempre una possibilità contemplata. Non è come per i tifosi di calcio, che si disperano. Chi fa una scelta radicale sa che può andare così. È tutto così sproporzionato, così immenso, che anche una piccola spinta, come diceva mio padre, verso il futuro dell’umanità, vale. È una storia che parte da Spartaco e continua: è sempre una scommessa”.

Mentre girava, ha avuto paura che questo film potesse diventare più terapeutico che narrativo?

“No, perché avevo attorno persone molto attente che mi ripetevano: “Attenzione, questo non deve diventare la tua terapia”. E io ero molto consapevole di questo. C’era il mio produttore, la mia montatrice… sapevamo tutti che c’era una componente terapeutica, inevitabilmente, come in qualsiasi espressione artistica. Ma il nostro impegno era fare un film, un vero film. Un pezzo di cinema, non solo un atto personale. Lì entra in gioco la regista. Non ero più solo la “soggetta” del documentario ma la regista che deve organizzare tutto il materiale, dare una forma. E forse l’esperienza maturata in altri ambiti mi ha aiutata a trovare un equilibrio”.

Nonostante sia un documentario, i dialoghi sembrano scritti da quanto sono potenti.

“Questa osservazione a me piace tantissimo. L’ho sentito dire da più persone. Qualcuno mi ha detto: “I dialoghi di questo documentario sono migliori della maggior parte dei film italiani”: mi ha fatto molto piacere”.

E sono anche recitati meglio, mi lasci dire.

“Ma sa perché? È che non siamo più abituati a quel tipo di linguaggio. Quella generazione lì, quel tipo di intellettuale, aveva una proprietà di linguaggio magnifica. Non si limitava alla frase fatta. C’era un pensiero dietro ogni parola. Era una vera lezione. Poi, puoi anche non essere d’accordo con quello che diceva, ma la chiarezza, la profondità… erano lì”.

Quanto del materiale girato ha dovuto lasciare fuori?

“Abbiamo tagliato molta roba meravigliosa, davvero. Mio padre poteva parlare dieci ore di fila, sviando qualsiasi domanda. Era un festival di digressioni. Il mio problema, infatti, era proprio smontare quel meccanismo, riportarlo su un piano più umano, più affettivo. Era questo il mio intento principale, mentre giravo: portare mio padre fuori dalla sua retorica, dalle sue abitudini oratorie. Cercare un contatto reale”.

Piano umano: ricorda una sua carezza o un gesto di tenerezza?

“No, francamente no. Una carezza, no. Ma ricordo tantissimi sorrisi. Una dolcezza condivisa, uno humor comune. Anche nei momenti di grande crisi familiare, ci guardavamo e ci veniva da ridere. Avevamo questo legame, questa intesa. È strano, perché ci siamo separati molto presto, io avevo 14 anni, ma è come se ci fossimo sempre capiti. Siamo stati anche molto simili, in fondo. Ci capivamo, questo sì”.

Uno dei suoi primi film di finzione si intitola Riprendimi. C’è un legame, un’anticipazione di quello che ha fatto ora con questo documentario?

“In quel film c’era un cameraman che filmava una donna. E ci sono anche momenti in cui i personaggi si rivolgono direttamente alla macchina da presa, raccontano cosa stanno vivendo. È lo stesso dispositivo che ho usato in Toni, mio padre, anche se all’epoca non ci pensavo. In questo documentario ci sono dei video-diari — tre in tutto — che ho girato proprio per ricordarmi come stavo in quei giorni. Era un modo per fissare quello che provavo. Non ci pensavo come strumento narrativo, ma poi si è rivelato fondamentale. Le racconto un aneddoto. Di recente a Lisbona ho visto Remake, l’ultimo film di Russ McElwee dove il regista racconta la morte del figlio, un’opera fortissima. McElwee è un regista che interagisce direttamente con i suoi soggetti, sempre presente nel racconto. Guardando quel film ho capito che esiste un filo che unisce Riprendimi e Toni, mio padre, passando proprio per lui”.

È stato un problema, per lei, essere donna e regista in Italia?

“Beh, sì. Quando ho iniziato, non ce n’erano moltissime registe donne. Mia madre mi diceva: “Magari farai la segretaria di edizione”. Esistevano solo Lina Wertmüller e Liliana Cavani, fine. Poi più tardi è uscito Il grande cocomero, che è stato il primo film di una regista donna, Francesca Archibugi, un po’ più vicina a me per età… ma era davvero raro che una donna si occupasse di regia”.

Ha mai pensato di mollare? Anche nei momenti più complicati all’inizio?

“Se non fossi andata in Inghilterra, non credo che sarei mai riuscita a fare la regista. Lì c’era una cultura diversa, un’idea di parità più avanzata. Non era perfetta, ma molto più avanti rispetto all’Italia. In Italia sei donna? Paghi dazio. In Inghilterra? Sei italiana. Insomma, dove vai, c’è sempre qualcosa che non va”.

Dopo questo film, in che direzione vorrebbe andare?

“Spero di tornare a fare commedie. Lo dico con leggerezza, ma anche con desiderio. Perché io, in fondo, sono di indole comica. Mi sono capitate un po’ troppe tragedie, ma davvero io avrei una vena comica molto forte. Spero che questo film mi porti altrove, che mi liberi”.

Quelle tragedie sono ormai tutte chiuse? Ha fatto i conti con tutto?

“Mah… penso che si finisca di fare i conti solo all’atto di morte. Però sì, sicuramente oggi sono più leggera di una volta”.

Questa leggerezza si riflette anche nel rapporto con suo figlio?

“Si vede nel film. Mi mette abbastanza in croce. Alla fine di una scena in cui discuto con mio padre mi dice: “Vedi? Ti senti esattamente come mi sento io quando litighiamo”. Ecco, anche quella è una scena che potevo non tenere, potevo edulcorare, ma ho deciso di lasciarla. Perché è vera.

E quella scena, in effetti, ha una funzione comica…

Per me è un grande momento comico. È una scena che stempera tantissimo la tensione. E poi, diciamocelo, tutti si riconoscono in quelle dinamiche familiari. È proprio questo il punto: cerchiamo di essere diversi dai nostri genitori… e poi finiamo per assomigliargli. Anche quando non vogliamo”.

E suo figlio glielo dice chiaramente: “Ti senti superiore a tuo padre, ma guarda che sei uguale”.

“Esatto. Me lo dice in faccia. E ha ragione”.

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UFFICIO STAMPA ECHO / KINOWEB.