Servizio realizzato da Guido P. Rubino e Maurizio Coccia
Per anni la Cina è stata la grande fabbrica del mondo. Le biciclette, i componenti e gli accessori che muovevano il mercato globale nascevano in larga parte nei suoi distretti produttivi. I marchi occidentali fornivano il know-how e l’immagine, i produttori orientali la capacità industriale.
Oggi però lo scenario si è ribaltato: sempre più aziende cinesi stanno affacciandosi direttamente sul mercato europeo, proponendo bici e componenti con il proprio marchio, senza passare dai brand per cui un tempo producevano.
È il segno di un passaggio epocale, che molti in Italia avvertono come una minaccia ma che, a guardarlo bene, racconta molto anche delle fragilità strutturali della nostra industria già messo in evidenza dalla pandemia. Anzi, proprio a partire dal periodo Covid-19 è iniziata una spinta forte dell’Oriente sul nostro mercato direttamente e senza intermediari.
Dopo l’overstock, l’assalto dei nuovi marchi
A leggere i numeri del mercato, l’origine del fenomeno è chiara. Dopo il boom del periodo Covid, le scorte si sono accumulate nei magazzini europei e americani, e il rallentamento della domanda ha colpito a catena tutto il comparto.
«Le aziende cinesi e taiwanesi si sono trovate con capacità produttive enormi e improvvisamente inutilizzate – spiega Salvatore Miceli, direttore generale di Beltrami TSA -. Per trent’anni hanno affinato competenze e know-how, producendo per marchi occidentali. Quando la domanda è calata, hanno dovuto scegliere: fermarsi o mettersi sul mercato con un proprio nome. Ed è quello che sta succedendo».
Il risultato è un’ondata di nuovi marchi che cercano spazio in Europa con listini aggressivi e prodotti che, spesso, nascono nelle stesse fabbriche dove vengono costruite bici per i grandi marchi internazionali.
«Non dobbiamo però illuderci che basti produrre per avere successo – aggiunge Miceli – Lanciare un marchio significa creare una rete commerciale, fare comunicazione, gestire l’assistenza. È qui che si giocherà la vera sfida per i nuovi attori».
Prezzi in discesa e margini compressi
Il problema, però, non riguarda solo l’Oriente. In Europa e negli Stati Uniti la bike industry sta affrontando una contrazione dei margini senza precedenti. Gli sconti massicci introdotti per smaltire l’overstock hanno abituato il consumatore a prezzi sempre più bassi.
«Oggi chi compra pensa di poter pagare “sei” ciò che due anni fa costava “dieci” – osserva ancora Miceli – Ma così non si reggono le filiere. I grandi brand si ristruttureranno, mentre chi non ha risorse dovrà ridimensionarsi. E in questo contesto i nuovi player trovano spazio, anche con prodotti non premium ma più accessibili».
Loris Campagnolo: “Non basta produrre, serve responsabilità”
Dal mondo della distribuzione arriva una visione più pragmatica. Loris Campagnolo, titolare di Ciclo Promo Components, rifiuta la narrativa catastrofista:
«Invasione cinese? Quale invasione? Noi distribuiamo marchi di tutto il mondo, ma il nostro mestiere è garantire qualità, assistenza e rispetto delle regole. In Italia non puoi vendere senza un riferimento locale e senza rispettare le normative europee. Anche le piattaforme digitali devono adeguarsi. Gli imballaggi, le istruzioni in italiano, le garanzie: tutto deve essere conforme. Non è così facile saltare la filiera».
Campagnolo difende il ruolo del distributore come “filtro di sicurezza” tra il produttore e il mercato:
«Prima di proporre un marchio, verifichiamo la qualità, i tempi di consegna e la capacità di assistenza. Un brand cinese, americano o europeo non fa differenza: se garantisce tutto questo, allora può entrare nel nostro portafoglio. La concorrenza non mi spaventa, mi spaventa chi non rispetta le regole».
Daccordi: “Consumare è un gesto politico”
Più riflessiva e disincantata la posizione di Stefano Boggia, di Daccordi che interpreta la tradizione artigianale italiana che ancora punta su produzione interna e personalizzazione.
«Quello che stiamo vivendo è la conseguenza di un processo iniziato decenni fa. Abbiamo esportato competenze e know-how, e ora ci ritroviamo a competere con chi abbiamo formato. La Cina produce, gli Stati Uniti fanno strategia, l’Europa crea norme: e così ci siamo legati mani e piedi».
Per Daccordi, la crisi è anche culturale:
«Il consumatore oggi non sa cosa compra, o meglio: non ha più la consapevolezza né la possibilità economica di scegliere. Ma consumare è un gesto politico. Ogni acquisto dice chi siamo. Tra la maglietta da cinque euro e quella da trecento serve una via di mezzo, anche nel ciclismo. Oggi abbiamo bici a prezzi folli che vendono tutto perché hanno il marchio giusto, mentre chi lavora sulla qualità artigianale fatica a emergere».
E aggiunge:
«Noi continueremo a parlare a chi condivide la nostra visione, a chi riconosce il valore di un prodotto costruito bene, con cura e con senso. Il nostro cliente non è quello attratto dal brand cinese o dal prezzo più basso».
Schiano: “Hanno i capitali, ma non il gusto”
Da sud arriva la voce storica di Mario Schiano, che da generazioni costruisce biciclette in Italia e ha visto il mercato cambiare più volte:
«Il governo cinese incentiva la produzione e spinge all’esportazione. Hanno capitali enormi e una capacità produttiva fuori scala, ma gli manca ancora il gusto e la conoscenza del mercato. Prima compravano aziende, oggi cercano partnership: vogliono stabilità e presenza in Europa, più che conquista».
Il problema, però, non è solo macroeconomico.
«Ci sono negozi che comprano bici su Alibaba o Temu e le rivendono come se fossero proprie. Passano la dogana come privati e fanno concorrenza sleale. A noi fanno controlli su tutto, a loro no. Così non si può competere. L’Europa accoglie i capitali, ma deve anche vigilare».
Schiano è netto: «Se non si mettono regole uguali per tutti, finiremo per diventare i loro dipendenti».
La risposta italiana: qualità, valore e identità
In questo scenario incerto, l’Italia cerca la sua strada.
Da un lato c’è chi, come Beltrami TSA, punta sulla fascia alta e su marchi di valore assoluto. Dall’altro, le aziende artigianali come Daccordi che difendono la produzione locale e l’identità di marca. E poi ci sono i distributori come Ciclo Promo Components, che diventano garanti di qualità e conformità.
Tutti concordano su un punto: il mercato cambierà ancora.
I marchi cinesi non sono più sinonimo di scarsa qualità, ma nemmeno tutti pronti a rispettare regole e standard europei. Quel che abbiamo visto alla recente Eicma, tra gli stand orientali, è significativo: loro propongono di tutto, sta a noi decidere cosa e, soprattutto come, importare nel rispetto delle regole.
La battaglia si giocherà sulla credibilità, sulla trasparenza e sulla consapevolezza del consumatore.
Un problema di regole e di cultura
Nel frattempo, l’Europa sembra trovarsi stretta tra due fuochi: da un lato la necessità di mantenere aperti i mercati e attrarre investimenti, dall’altro la tutela del proprio sistema industriale.
I dazi – come ricordano Ciclo Promo Componets e Schiano – sono già in vigore per molte categorie di prodotti, ma i controlli restano insufficienti.
E il rischio di un’invasione “silenziosa”, fatta di vendite dirette online, triangolazioni e marchi digitali, è tutt’altro che remoto.
Come sempre, il problema è duplice: industriale e culturale.
L’industria europea deve trovare nuove formule per essere competitiva senza svendere il proprio valore; il consumatore deve tornare a capire che dietro un prezzo ci sono scelte, responsabilità e lavoro.
Oltre la paura
Alla fine, l’“invasione cinese” è un sintomo, non la malattia. Parla di una globalizzazione che ha perso equilibrio, di regole europee che penalizzano chi le rispetta, e di un consumatore confuso tra il desiderio di risparmiare e quello di appartenere a un marchio.
Ma come spesso accade, le crisi possono anche generare risposte nuove.
Come osserva Daccordi, «forse è un’occasione per chiederci chi siamo, cosa vogliamo essere e a chi vogliamo parlare».
E in questo interrogativo – più che nella paura dell’Oriente – si gioca davvero il futuro del ciclismo europeo.