Quante cose è il nuovo ambizioso romanzo di Sebastiano Mondadori Di cosa siamo capaci (La nave di Teseo, pp. 400, euro22,00): un libro polifonico e fluviale, capace di tenere insieme il generazionale e il politico, l’indagine psicologica e familiare, la riflessione sul tempo e sulla memoria, su utopia e disincanto, con uno stile che alterna lirismo, ironia, affondi intellettuali e slanci sensuali. Certo, l’inizio è selettivo: è il 12 dicembre 1969 e, in una Milano che vibra di tensione, un ricco imprenditore dai tratti che oggi definiremmo tossici abusa di Adele, giovane cameriera, in una stanza d’hotel, subito prima che la bomba in piazza Fontana deflagri in un trauma anche collettivo. Da questo buco nero, superata la prova dell’immedesimazione, tutto si apre e si espande.

ADELE SI RIVELA fin da subito e in maniera crescente un personaggio memorabile: attrice di sé stessa, musa implacabile e sfuggente, idealista e manipolatrice, esercita un’attrazione inquieta e profonda su chiunque. La incontriamo nel 1965 in un’osteria dell’Italia comunista e canterina, in compagnia di due giovani amici e spasimanti, Bernardo e Rodolfo – giacché lei vuole «due di tutto» – con i quali condivide ideali, desideri e speranze. È lei, tre anni dopo, che ritorna da Parigi dopo avere amato, sedotto e abbandonato, per guidare il gruppo di amici verso la tenuta toscana della marchesa Diletta Ottobruni. Qui, a casa di un’alta società che finge di abiurare se stessa, si tiene per tutta un’estate il «grande bivacco», una festa del collettivismo che solo la repressione della primavera di Praga riuscirà ad incupire, «vittoria della guerra sui sogni» che renderà tutti «illusi di un passato diverso». Ma Adele rimane centrale, catalizzante, ambigua: figura problematica di un’intera generazione sospesa tra rivoluzione e individualismo, tra corpo e pensiero, tra bisogno d’amore e rifiuto di ogni vincolo.

Poi c’è Nina, la figlia, l’altra grande protagonista. Timida ma brillante, irrisolta, affamata di verità. Vive all’ombra del mito materno ma cerca di sottrarsene. Alla compulsione con cui Adele guarda avanti, ostinata nel voltare le spalle al passato e al ricordo, Nina ha nella memoria conforto e tormento. Con lei il romanzo si fa educazione sentimentale e indagine genealogica, poiché Nina vuole capire, ridefinirsi. E in questo tentativo, durante l’Interrail del 1993 cederà alle attenzioni dell’amica Thaïss in un rapporto fra i più belli del libro, di amore e formazione al contempo. Il rapporto con la madre, d’altro canto, è carico di non detti ma anche di dolcezza – il rituale del cafunè che le lega nonostante tutto – e si addensa in una scena, in una clinica ginecologica, che ci induce più che mai a sospendere il giudizio.

I MASCHI non stanno a guardare, ma hanno la mal celata remissività dei personaggi secondari. Marco, fratello di Nina, è dolente, misterioso, e finirà per ritirarsi su un’isola. Ruben, amico e amante intermittente, vive di seduzione e paura, e sconta uno scarto di classe sociale. Giacché il romanzo è anche questo: un’epopea ancora borghese, europea e tardo-novecentesca, che guarda a modelli oggi inaccostabili al mainstream. La scrittura, spesso teatrale, a tratti lirica, sa essere fortemente visiva e il suo ritmo, specie nei dialoghi e nei passaggi corali, evoca il montaggio filmico. Non è un caso che uno dei riferimenti espliciti e impliciti dell’opera sia Truffaut: non solo eminenza in un romanzo che fa dei must artistici dell’epoca un elemento costitutivo, ma anche modello narrativo. Milan Kundera ne è invece il pendant letterario, persino metaletterario, nume tutelare di un’esplorazione della nostalgia e del rapporto fra Storia ed esistenza come non se ne vedevano da un po’.

Ma i maschi, si diceva, mentre gli anni passano. Bernardo, lo scenografo Bebo, è diventato il marito di Adele, mentre Rudi attira Nina nell’ebbrezza dell’erotismo adulto. È il 1994 e non si sa come Adele abbia potuto finire, dopo una carriera accademica e un’esperienza da europarlamentare e femminista di successo, a candidarsi nelle file di Forza Italia – o forse sì, lo si saprebbe fin troppo bene come l’utopia di un tempo si sia potuta trasformare, per certuni, nella «distopia della felicità». Ma non è tutto, e anche qui Mondadori si guarda bene dal giudicare. Invece, in un crescendo virtuosistico ci accompagna fino in fondo, ai giorni nostri o quasi, con il respiro ampio del vero romanziere, fra ritorni involontari del passato, buzzatiani colombre ed elefanti che scompaiono.