«Andrea [Segre] ci chiamava da ogni tappa del tour dicendo: “Guardate che ci sono un sacco di ragazzi”», ci avevano raccontato Marta Donzelli e Gregorio Paonessa, produttori di Berlinguer – La grande ambizione (qui la nostra cover story) nello speciale cinema di Venezia. Anticipandoci anche in esclusiva che, insieme al regista, stavano preparando un documentario per raccontare quell’onda, quel passaparola generazionale che aveva trasformato un film politico in un “piccolo” caso di partecipazione popolare. Ora quel viaggio nel viaggio, titolo Noi e la grande ambizione, arriva in sala da oggi.
Andrea Segre – documentarista per vocazione e antropologo per formazione – è tornato sui passi del film, non più per dipingere un leader politico, ma per osservare chi lo guarda oggi attraverso lo schermo. Per capire cosa spinge decine di migliaia di ventenni e trentenni a riempire le sale per ascoltare la voce di un uomo morto quarant’anni fa, che parlava di giustizia sociale e di sogni collettivi. Per rispondere a una domanda: che cosa cercano i giovani italiani quando vanno al cinema a vedere un biopic (pardon) su Enrico Berlinguer?
Quando La grande ambizione ha aperto la Festa del Cinema di Roma nel 2023, sembrava destinato soprattutto a un pubblico di nostalgici e militanti. Invece è successo l’imprevisto, dati Cinetel alla mano: su tutti quelli della scorsa stagione, due film si sono distinti per la presenza di spettatori tra i 25 e i 35 anni, e cioè Parthenope e Berlinguer. Da qui nasce l’idea di «fissare la reazione di tantissimi giovani davanti a una stagione che non hanno vissuto», cit. Donzelli.
Il documentario segue il film lungo un tour che è diventato quasi un esperimento sociale: proiezioni su proiezioni, assemblee universitarie, incontri spontanei di cittadini, fino al dibattito al Nuovo Sacher feat. Nanni Moretti. Un tuffo nel rapporto tra cinema e politica, ma anche tra la vita che viviamo e la vita che vorremmo vivere: «La grande ambizione oggi è diventato semplicemente avere un’esistenza dignitosa oggi», sottolinea una ragazza. «Stare in una società in cui tutti quanti abbiamo gli stessi diritti, finché una persona ha meno diritti di me o di voi vuol dire che c’è qualcosa che non va», le fa eco un altro.
«Volevamo che il film risuonasse con l’oggi, con la crisi della partecipazione collettiva», ci aveva detto Andrea Segre. «Il mondo si è frammentato, e la prima cosa che si corrode è la giustizia. Quella comunità che credeva in un sogno è uno specchio deformante di ciò che ci sta succedendo». E nel doc vediamo esattamente quello che sta succedendo: un Paese che si interroga su cosa gli sia accaduto, e sul perché non riesce più a stare insieme.

Foto: Vivo film e Lucky Red
C’è chi racconta di aver accompagnato al cinema la madre e di aver capito che quel film riguarda anche lei, chi ammette di essere nato dieci anni dopo lo scioglimento del PCI ma di sentire «una nostalgia ereditaria» per quelle grandi strutture collettive. Chi afferma ancora: «Il problema è che non sappiamo più dove incontrare la politica. Semplicemente, non la incontriamo». E ancora chi ribalta il paradigma: «È un lusso poter smettere di fare politica. Io non posso: la mia esistenza è politica in quanto donna, transfemminista, lesbica, madre. Il personale è politico». Le voci dei giovani si alternano a frammenti inediti del film, a materiale di backstage e a testimonianze di diverse generazioni, in un montaggio che alterna assemblee universitarie e i racconti con le lacrime agli occhi di chi c’era. Il risultato è una mappa emotiva dell’Italia di oggi, disillusa ma mai rassegnata.
A un certo punto, qualcuno in sala chiede se nell’intenzione del progetto c’era anche mettere un freno a una nostalgia in un certo senso “pericolosa”, che – e qui cito – «anziché spingere a fare meglio e a rifare qualcosa di collettivo, può diventare un ostacolo». Il punto è centratissimo, come risponde Segre: «Era assolutamente quello che volevamo fare, ma l’hai detto molto meglio di noi». Noi e la grande ambizione prova a usare la memoria non come rifugio, ma come strumento per rimettere in moto l’immaginazione politica, per far parlare chi non si sente rappresentato, chi è cresciuto dentro una democrazia che sembra aver perso il controllo della rappresentanza. «La nostra vita è una lotta per affermare qualsiasi microscopico diritto, e io sento la solitudine, la parcellizzazione», spiega una ragazza. «Ma avere delle persone con cui condividere la rabbia rende possibile pensare realtà diverse», dice un altro.
Una studentessa chiede: «Ma allora, possiamo avere un altro Berlinguer?». Giulio Marcon, consulente storico del film, risponde che no, «manca il presupposto storico». E un signore di sessant’anni, con la voce spezzata, aggiunge: «Io ero giovane allora, e ho smesso di crederci quando è morto. Mi sentivo una vedova». Le due affermazioni si inseguono, e in mezzo ci sono i ventenni che ascoltano in silenzio. Poi il regista che chiede: «Cosa è successo nel frattempo? E soprattutto: cosa farete voi?».

Foto: Vivo film e Lucky Red
È un documento sulla fame di comunità, sulla necessità di sentirsi parte di qualcosa che non sia solo la somma dei singoli, Noi e la grande ambizione. Un film che parla di collaborazione invece che di competizione, di politica intesa come azione condivisa e non come delega. Di nuovo Germano: «Siamo stati allevati a essere clienti, ci hanno spiegato che l’unico modo in cui possiamo cambiare la nostra felicità personale è mettere una crocetta su un partito anziché su un altro, invece noi dobbiamo essere partecipi, far sentire la nostra voce. E ricordare ai rappresentanti che sono rappresentanti».
Ed è proprio da lì che parte il documentario, dal bisogno di rimettere in piedi, e al centro, una parola collettiva dimenticata, capace di contenere tutto: la rabbia, la disillusione, la speranza, la possibilità di un gesto comune. Perché, oggi più che mai, la grande ambizione è tornare a dire “noi”.