“No Maga left behind”. Questo è il motto del presidente Trump, che gli amici non dimentica e nessuno deve essere lasciato nei guai (giudiziari): a iniziare da Rudy Giuliani per poi seguire con altri 76 funzionari, accusati di aver provato a ribaltare il risultato delle elezioni del 2020. La conferma arriva da Ed Martin, il procuratore che al Dipartimento di Giustizia si occupa di questo settore: la concessione della grazia. Oltre a Giuliani, in qualità di ex avvocato e collaboratore di primo piano del tycoon, ci sono anche gli altri componenti del team legale dell’epoca Sidney Powell, John Eastman e Kenneth Chesebro, e il capo dello staff di Trump nel 2020, Mark Meadows.

Lo stesso Martin ha pubblicato la comunicazione del presidente: “Io, DONALD J. TRUMP, con la presente concedo una grazia totale, completa e incondizionata a tutti i cittadini degli Stati Uniti per la condotta relativa alla consulenza, creazione, organizzazione, esecuzione, presentazione, supporto, voto, attività o difesa di qualsiasi lista di elettori presidenziali… in relazione alle elezioni presidenziali del 2020. La grazia riguarda anche “qualsiasi condotta relativa ai loro sforzi di denunciare brogli elettorali e la vulnerabilità nelle elezioni presidenziali del 2020”.

C’è da dire che questo provvedimento del Capo della Casa Bianca ha un carattere simbolico, poiché nessuno tra i settanta e più suoi ex collaboratori erano accusati di reati federali, quest’ultima area di competenza dei provvedimenti presidenziali speciali. Ma il gesto ha la sua importanza per Donald Trump e per l’area Maga, che non ha mai accettato la sconfitta inflittagli da Joe Biden ed ha sempre alimentato il complottismo sul voto alterato da brogli, senza però mai presentare prove. Le accuse lanciate pubblicamente dal repubblicano, così come dallo stesso Giuliani, furono la miccia che il 6 gennaio 2021 portò gli ultràs repubblicani ad assaltare Capitol Hill, sede del Congresso americano. Si contarono cinque morti: un poliziotto e quattro manifestanti. Un commissione speciale, dopo una indagine durata 18 mesi, raccomandò al Dipartimento di giustizia di perseguire Donald Trump per il suo ruolo in quelle giornate. Ma l’indagine portata avanti da Jack Smith, procuratore speciale del Dipartimento di Giustizia, è stato interrotto l’anno scorso dopo la vittoria di Trump alle elezioni presidenziali sulla candidata democratica Kamala Harris. Il Dipartimento vieta di perseguire penalmente i presidenti in carica.

Da quel momento il tycoon ha agito per sostenere chi gli era stato accanto nella battaglia contro il “voto truccato” concedendo 1.500 condoni – ne hanno beneficiato anche coloro che agirono presentando certificati falsi per sostenere The Donald in quella tornata elettorale – e annullando le condanne nei confronti di 14 supporters violenti coinvolti nell’attacco del 6 gennaio al Campidoglio, tra cui membri dei gruppi Proud Boys e Oath Keepers, riconosciuti colpevoli di cospirazione sediziosa. Poi a settembre, Trump ha fatto sapere che intendeva conferire a Giuliani la Presidential medal of freedom, una delle più alte onorificenze del Paese.

Una mano tesa a colui che vantava non pochi successi: contro la criminalità organizzata come procuratore, poi da sindaco dal polso fermo di New York e trascinatore dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle – Time lo indicò come “uomo dell’anno” – per poi cadere rovinosamente. Giuliani subì la radiazione dall’albo degli avvocati di New York e Washington per aver sostenuto le false affermazioni di Trump sui brogli, e perse una causa di diffamazione da 148 milioni di dollari, mossagli da due ex funzionari elettorali della Georgia, che lo avevano portato in tribunale per denunciare le conseguenze sulle loro vite professionali e personali legate alla teoria del voto alterato a favore dei democratici.