Resta critica la situazione pensionistica in Italia, dal momento che il rapporto pensionati-lavoratori è sempre più sbilanciato, soprattutto nel Mezzogiorno, dove il numero delle pensioni erogate in alcune regioni ha già superato quello dei lavoratori attivi. In questo quadro la soluzione sarebbe un maggior ricorso alla previdenza integrativa, che però stenta a decollare.
“La sostenibilità del sistema pensionistico pubblico è sempre più sotto pressione: spendiamo già oltre il 15% del Pil in pensioni e, tra quindici anni, la quota potrebbe superare il 17%. La combinazione di bassa natalità, ingresso tardivo nel mondo del lavoro e maggiore longevità mette a rischio il patto tra generazioni su cui si regge il welfare italiano”
sottolinea Andrea Rocchetti, Global Head of Investment Advisory di Moneyfarm, società internazionale di consulenza finanziaria.
Il sorpasso dei pensionati già avvenuto al Sud
Secondo l’ultimo rapporto della CGIA di Mestre il sorpasso dei pensionati sui lavoratori attivi è già avvenuto in alcune regioni del Sud da alcuni anni: nel 2024, a fronte di 7,3 milioni pensioni pagate, avevamo poco più di 6,4 milioni di occupati. Il Mezzogiorno è l’unica ripartizione geografica del Paese che presenta questo squilibrio. La regione con il disallineamento più marcato è la Puglia che registra un saldo negativo pari a 231.700 unità. Ad eccezione della Liguria, dell’Umbria e dalle Marche, invece, le regioni del Centro-Nord mantengono un saldo positivo che si è rafforzato, grazie al buon andamento dell’occupazione avvenuto negli ultimi 2-3 anni: Lombardia (+803.180), Veneto (+395.338), Lazio (+377.868), Emilia Romagna (+227.710) e Toscana (+184.266).
Previdenza complementare stenta a decollare
E mentre prende forma la Legge di Bilancio 2026, si riaccende il dibattito sulle possibili misure per rafforzare la previdenza complementare, ad esempio con l’iscrizione automatica dei neoassunti ai fondi pensione o con forme di impiego del TFR come previdenza integrativa. Uno studio di Moneyfarm rivela però che la previdenza integrativa non è mai decollata in Italia.
A diciotto anni dall’entrata in vigore del “semestre di silenzio-assenso”, che nel 2007 coinvolse più di 5 milioni di dipendenti del settore privato e portò ad un aumento di oltre il 63% nel numero degli iscritti ai fondi pensione negoziali, il secondo pilastro pensionistico fatica ancora a consolidarsi: solamente il 38,8% dei lavoratori dipendenti e il 23,7% degli autonomi risulta iscritto a un fondo pensione; percentuali che si riducono ulteriormente, rispettivamente al 30,5% e al 13,3%, se si considera chi ha effettuato versamenti nell’arco di dodici mesi.
Analizzando più da vicino un campione rappresentativo di cittadini in età lavorativa, Moneyfarm ha calcolato che, degli oltre 31,4 milioni di italiani nati tra il 1961 e il 2000, solo il 37% dispone di un fondo pensione, mentre il restante 63% risulta occupato senza forme di previdenza complementare oppure inoccupato.
Anche l’impiego del TFR come strumento di investimento previdenziale è limitato: tra il 2007 e il 2024 soltanto il 23,8% del TFR generato dalle imprese italiane – in lieve aumento rispetto al 22,2% del 2023 – è stato destinato a forme di previdenza integrativa. Il resto è rimasto nelle aziende (234 miliardi di euro) o è confluito nel Fondo di Tesoreria INPS, che raccoglie il TFR delle aziende con più di 50 dipendenti (105 miliardi).
Resta alta la disparità di genere
Un altro tema rilevante è la disparità di genere, sia sotto il profilo occupazionale sia come previdenza, poiché si contano meno le donne che uomini, in termini assoluti, tra gli iscritti ai fondi pensione (39% del totale contro 61%). La situazione migliore è per gli uomini di età compresa tra i 55 e i 64 anni, dove quasi la metà (48%) ha sottoscritto un fondo pensione, contro il 42% delle coetanee donne. All’estremo opposto, la situazione più critica riguarda le giovani donne tra i 25 e i 34 anni: qui il tasso di adesione crolla al 25,5%, a fronte del 33,2% dei coetanei uomini.
Il gender gap occupazionale e salariale si riflette anche sul valore delle pensioni erogate: nel 2024, le pensioni di anzianità femminili risultano inferiori del 15,4% rispetto a quelle maschili (1.884 euro lordi vs 2.227), mentre per le pensioni di vecchiaia – basate sul raggiungimento dell’età anagrafica, dunque più probabilmente in presenza di carriere brevi o interrotte – la differenza sale al 30,1% (936 euro vs 1.340). Carriere più brevi, stipendi mediamente inferiori, discontinuità contributiva e maggiore longevità rendono la pianificazione previdenziale delle donne una priorità assoluta, in un contesto in cui la previdenza complementare rappresenta uno strumento essenziale per garantire una maggiore sicurezza economica nel lungo periodo.