Rashid (Ebrahim Azizi) sta guidando di notte con la moglie e la figlia quando investe e uccide un cane; l’incidente danneggia gravemente il motore compromettendo sensibilmente l’auto. L’uomo accosta così in un’officina vicina dove incontra un ex prigioniero politico di nome Vahid (Vahid Mobasseri), che riconosce in lui una familiarità. Questi ha una gamba finta; il cigolio della protesi emette lo stesso suono di quello di un agente dei servizi segreti chiamato Eghbal, che lo aveva preso di mira negli anni in prigione in Iran causandogli danni renali permanenti. Il giorno dopo Vahid segue l’uomo, lo rapisce e lo porta nel deserto per seppellirlo vivo; tutto sembra condurre a un finale già scritto, ma non è facile decidere della vita di qualcuno se si ha ancora una coscienza.

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Da queste pungenti premesse parte il viaggio di Un semplice incidente, il nuovo gioiello di Jafar Panahi con cui l’autore iraniano ha segnato un primato da superstar. È, infatti, l’unico regista nella storia del cinema ad aver vinto i massimi riconoscimenti in tutti e quattro i principali festival cinematografici internazionali. Dopo il Camera d’or al Festival di Cannes per il folgorante esordio de Il palloncino bianco, nel 1995, il Pardo d’oro al Festival di Locarno per Lo specchio, nel 1997, il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia per Il cerchio, nel 2000, e l’Orso d’oro alla Berlinale per Taxi Teheran, nel 2015, ecco, infine la Palma d’oro con Un semplice incidente. Il film rappresenta inoltre il primo realizzato da Panahi all’indomani del rilascio, da parte delle autorità iraniane, dopo l’arresto avvenuto nel luglio del 2022, con l’accusa di propaganda contro il governo.

La stessa sorte che è toccata al collega e amico Mohammad Rasoulof dell’altrettanto potentissimo Il seme del fico sacro, per intenderci; condannato a sei anni di reclusione, Panahi è stato poi liberato nel febbraio del 2023 dopo essere riuscito a forzare la mano del regime mediante uno sciopero della fame di quarantotto ore. L’ultima, in ordine di tempo, di una serie di provvedimenti e restrizioni a cui il regista è incorso, visto che è da più di vent’anni che le autorità iraniane cercano in ogni modo di minarne la credibilità limitandone la libertà d’azione.

Un gesto di resistenza

Non stupisce minimamente sapere, quindi, come Un semplice incidente sia stato direttamente influenzato dalla sua esperienza nelle carceri iraniane. La seconda in particolare, che su ammissione dello stesso Panahi è risultata un po’ diversa dalla precedente del 2010: “la prima volta che sono stato incarcerato, sono stato messo in isolamento per quindici giorni, e poi chiuso in una cella con solo due o tre persone. Ho visto a malapena qualcuno. Durante la mia seconda condanna, però, ero in mezzo a molti altri prigionieri, persone provenienti da percorsi di vita molto diversi. Ho avuto lunghe conversazioni e scambi con loro durante i sette mesi di detenzione. Quando mi hanno rilasciato dopo lo sciopero della fame, mi sono sentito disorientato. E quella tensione mi è rimasta dentro. Non riesco ancora a scrollarmela di dosso”. Un sentirsi continuamente in gabbia o, per meglio dire, “condannato”.


Una scena di Un semplice incidente.

È ancora ai margini del sistema, Panahi; non potrebbe nemmeno inviare una sceneggiatura alla commissione della Repubblica Islamica per ottenere l’autorizzazione a girare, perché sa già che non otterrebbe mai il benestare. E infatti anche Un semplice incidente è stato realizzato in assoluta clandestinità, cosa che in ogni caso non ne ha minimamente limitato la portata visto che, all’indomani della formidabile Palma d’oro, il film ha passato in rassegna i festival di tutto il mondo: Sydney, Locarno, Melbourne, Telluride e Toronto, New York, fino, ovviamente alla Festa del Cinema di Roma dove è stato presentato in anteprima nazionale nella sezione “Best of”. C’è, tuttavia, un ulteriore fattore provocatorio in quello che non si può che definire un gesto di resistenza contro l’oppressione del regime in formato cinematografico. Le attrici, nel film di Panahi, non indossano sempre l’hijab, che come tutti sanno è obbligatorio per le donne secondo la legge iraniana.

Cinema sociale

Attenzione, però, a non parlare di Un semplice incidente come espressione di cinema politico; del resto è lo stesso Panahi a rifuggire da questa dicitura che a suo dire serve soltanto a creare divisioni tra buoni e cattivi. Tra chi la pensa in un modo e in un altro, ognuno con i suoi valori, le sue posizioni e le sue ragioni. È bene, invece, considerarlo come cinema sociale dalle tematiche politiche. Un cinema, cioè, profondamente radicato nel territorio che mette gli individui al primo posto. Non a caso, a differenza di altri suoi colleghi illustri come lo stesso Rasoulof o Asghar Farhadi, che nelle proprie pellicole sono soliti scritturare perlopiù attori professionisti, Panahi preferisce i non-attori. La gente vera, autentica, del posto; è di loro e a loro che parla il suo cinema, ed è a loro a cui Panahi dà voce. Lo stile della costruzione delle immagini è naturalistico, diretto, vivido, eppure avvolto di una patina magica che lo rende tanto attuale quanto sospeso: senza tempo e fuori dal tempo.


Vahid Mobasseri in un momento del film.

Che poi è il marchio di fabbrica di Panahi assieme a quell’ironia di fondo tipica di chi non ha la benché minima intenzione di vedere sepolta la propria voce. Da Il palloncino bianco passando per gli indimenticabili Lo specchio e Il cerchio, fino a Taxi Teheran e Gli orsi non esistono, è di questa sostanza filmica che è fatto il suo cinema. Solo che stavolta, con Un semplice incidente, avviene davvero qualcosa di inusuale o per meglio dire inaspettato; stenterete a crederci, ma l’opera è impostata secondo il registro della commedia d’equivoci. È umorismo tipico di quella terra, quindi non recepibile alla stessa maniera da tutti i tipi di pubblico, ma è quello il ritmo che Panahi ha scelto di dare al racconto; lo stesso “semplice incidente” del titolo altro non è che un equivoco dei più classici. Ma sono davvero tanti gli esempi di svolte narrative disseminati da Panahi lungo tutta la narrazione, e che sembrano usciti da una commedia sofisticata degli anni d’oro di Hollywood.

Alla maniera di Hitchcock

Ma c’è di più, perché è tra le ispirazioni artistiche ed elettive di Panahi che è possibile ricercare nuove e ulteriori ragioni narrative di Un semplice incidente a partire da una delle più insospettabili: Alfred Hitchcock. Panahi si considera da sempre un hitchcockiano, un suo allievo spirituale. Ora, è vero che la narrazione da lui intessuta è impostata secondo il ritmo della commedia, ma sottotraccia scorre quel qualcosa tipico del genere thriller che vi dà carattere e brio. Non è per questa sola ragione, però, che ci permettiamo di scomodare Hitchcock, perché sarebbe fin troppo riduttivo. Prendiamo Psycho. Al di là delle scene cult, della gestione della tensione narrativa, del ritmo e di due straordinari Anthony Perkins e Janet Leigh, la ragione dello straordinario successo di quel film risiede anche e soprattutto nell’atipica natura del racconto. Nasce come un heist movie, un classico film di “fuga col malloppo”, per poi evolvere, tra pulsioni edipiche, perversioni voyeuristiche e ribaltamenti di coscienze narrative, in un thriller feroce su di un omicidio efferato. Hitchcock giocò con le aspettative del suo pubblico manipolandole all’occorrenza.


L’inizio di tutto.

Panahi, per certi versi, sembra qui voler fare la stessa cosa. La narrazione di Un semplice incidente, infatti, parte introducendo a noi, tra toni leggeri e semplicità d’azione, il nucleo familiare dell’uomo che diventerà poi il nostro (presunto) carnefice. Tanto che a un certo punto il pubblico sembra quasi pensare che sia lui la coscienza del racconto, il punto di vista narrativo. Nemmeno il tempo di realizzare la connessione empatica che la narrazione si capovolge; quello che credevamo potesse essere l’eroe protagonista diventa l’antagonista e chi si pensava potesse essere una comune funzione scenica di passaggio diventa la nuova coscienza del racconto. Da lì ecco prendere forma una narrazione strutturata come fosse un ibrido tra un kammerspiel spirituale e un road movie consumato che solo apparentemente può sembrare un film di vendetta agognata e perdono desiderato. Ci sono, è vero, ma sono null’altro che un superficiale strato valoriale che del film è strumento e motore narrativo.

Domande in cerca di risposta

L’essenza del film è un’altra e risiede nella risposta a una domanda: Cosa accadrà in futuro? È un film sui traumi e le conseguenze della prigionia, Un semplice incidente, su ideali traditi e altri difesi – da proteggere a ogni costo – ma anche un’analisi attenta e meticolosa della natura umana . “Il fatto che siano stati violenti non significa che dobbiamo esserlo noi con loro. Quando finirà questo ciclo?”, si chiede a un certo punto la fotografa di eventi Shiva (Mariam Afshari). Perché in fondo, che ragione c’è a rispondere alla violenza con altra violenza? Perché snaturarsi fino a perdersi del tutto? È su questi sottili fili esistenziali che Panahi muove il racconto, realizzando un esotico e spirituale teatro dell’assurdo debitamente ispirato ad Aspettando Godot, di Samuel Beckett, dove ogni agente scenico si muove assemblando le opportune ragioni sul perché uccidere un carnefice e sul perché non farlo.

La risposta a simili domande non la troverete fra queste righe. A differenza di Beckett, però, in Un semplice incidente in qualche modo arrivano e non sono affatto quelle che si pensava potessero essere in un primo momento. Ma va bene così, perché la cosa importante è porsi gli interrogativi, rifletterci opportunamente. Oltre alla certezza che come critici, addetti ai lavori e comuni cinefili è assolutamente necessario vedere film come questo. I film che fanno bene, quelli che valgono il nostro tempo.

Un semplice incidente è disponibile al cinema.

Di autori come Jafar Panahi il mondo del cinema (e non solo quello) ha sempre più bisogno. Con Un semplice incidente realizza qualcosa che ha molto in comune con Il sapore della ciliegia del mentore e amico Abbas Kiarostami. Se però, lì, un uomo vagava per l’Iran in cerca di qualcuno che lo uccidesse, qui abbiamo un personaggio che tutti vorrebbero uccidere ma per cui la sola ragione di farlo non sembra essere sufficiente a compiere il gesto. Un film straordinario che vive di sfumature, profonde ragioni e sensibilità rara.