di Fosca Gallesio

A House of Dynamite, l’ultimo film di Kathryn Bigelow, è un interessante thriller politico che esplora le possibili implicazioni di un attacco nucleare diretto contro gli Stati Uniti. Il film adotta una particolare struttura tripartita, offrendo il punto di vista di tre luoghi differenti impegnati nella gestione della crisi.

Si inizia con l’unità di crisi della Casa Bianca, dove il personaggio centrale è il capitano capo dello staff, interpretato da Rebecca Ferguson. Il secondo segmento si sposta nell’ufficio del Segretario alla Difesa, interpretato da Jared Harris. Infine, il terzo segmento narrativo riguarda direttamente il Presidente degli Stati Uniti, interpretato da Idris Elba.

Il film, dunque, è parcellizzato: da un lato analizza in profondità scomponendo il racconto, dall’altro moltiplica i punti di vista in una sorta di mise en abyme della realtà, triplicata in una struttura narrativa a spirale che si avvolge su se stessa, precipitando verso l’esplosione finale.

L’intera struttura narrativa ruota attorno ai venti minuti chiave della storia: un’unità temporale precisa che costituisce la trama del film e che viene ripetuta in tre versioni differenti. Questo lasso di tempo va dal momento in cui sui radar viene individuato un missile diretto verso il territorio americano, fino al tentativo di intercettazione, fallito, e alla successiva individuazione della traiettoria del missile nemico. Quando si riconosce che l’obiettivo probabile, con una percentuale di certezza del 90%, è la città di Chicago, viene stimata l’entità dei danni: solo le vittime immediate, colpite dall’esplosione senza considerare il fallout radioattivo, sarebbero circa dieci milioni.

Tutti questi elementi di trama vengono esplorati nel primo segmento, che in un certo senso esaurisce la componente di suspense puramente narrativa. Infatti, se A House of Dynamite adotta una struttura da thriller, l’elemento classico del “vedere come va a finire” viene risolto molto presto. L’interesse del film si sposta così altrove: non sull’esito della storia, ma sul modo in cui i diversi personaggi — chiamati, per ruolo e posizione, a gestire l’emergenza — riescono o meno a mantenere il controllo, a dare risposte operative, a gestire la paura.

La regia di Bigelow concentra l’attenzione non tanto sulla componente operativa o militare, che pure è resa con grande dettaglio e con uno stile quasi documentaristico, ma sulla dimensione umana. Il linguaggio tecnico, fitto di acronimi e termini specifici, crea volutamente un effetto di cripticità: lo spettatore non capisce sempre nel dettaglio cosa stia accadendo sul piano operativo, ma percepisce chiaramente la tensione.

Ciò che interessa alla regista non è la precisione del linguaggio militare, bensì la capacità dei personaggi di mantenere la lucidità, la freddezza e la logica necessarie in una situazione estrema, pur dovendo affrontare l’impatto emotivo e psicologico dell’evento. C’è lo sgomento, la sorpresa, la consapevolezza di trovarsi davanti a un attacco nucleare reale: emozioni che cozzano contro il ruolo istituzionale, imponendo un equilibrio quasi impossibile tra razionalità e panico.

Proprio in questa tensione interiore — tra l’istituzionalità logica e la reazione umana — si sviluppa il cuore del film. L’attrito cresce progressivamente, perché nel corso dei tre segmenti il livello dei personaggi coinvolti si alza: dalla manager della Casa Bianca si arriva fino al Presidente stesso.

Bigelow gioca abilmente con il desiderio dello spettatore di sapere “come andrà a finire”, pur costruendo un racconto in cui il finale non è la rivelazione decisiva, ma l’esito coerente di un ragionamento politico e morale. Il finale, infatti — senza rivelare troppo — non è una sorpresa, ma un punto di arrivo che serve il messaggio complessivo del film: una riflessione sulla corsa agli armamenti, sul concetto di deterrenza e sulla sua effettiva utilità.

A House of Dynamite non si basa sulla domanda “cosa succederebbe se?”, ma sul dilemma etico e politico del “cosa dovremmo fare quando accadrà”. L’esplosione della bomba, in sé, è secondaria: ciò che interessa è la reazione umana e le decisioni che vengono prese di fronte a una minaccia irrisolvibile da chi lavora all’interno dei sistemi di potere.

Il film esplora con grande precisione il dilemma centrale: come reagire a una minaccia nucleare imminente e ineluttabile. Il giovane assistente del Segretario alla Sicurezza Nazionale diventa la figura chiave in questa dinamica: non abituato a gestire situazioni di massimo livello, viene però investito della responsabilità di fornire indicazioni operative e morali cruciali.

Attraverso di lui, Bigelow mette in scena la tensione tra reazione immediata e riflessione ponderata. Si tratta di decidere se lanciare una ritorsione preventiva o attendere conferme certe sull’origine dell’attacco. Il film insiste su questa dialettica, ripetendo l’azione dei venti minuti cruciali attraverso i tre punti di vista: ogni iterazione rivela nuovi dettagli, nuove incertezze, nuove responsabilità e nuove sfumature emotive dei personaggi coinvolti.

L’elemento etico emerge con particolare forza nel confronto diretto tra il Presidente e il giovane vice del segretario della NSA. Viene chiarito che il paese più potente del mondo non può apparire debole, e che la pressione internazionale — la percezione di forza o di cedimento — diventa parte integrante della decisione. Questa tensione tra ruolo istituzionale, moralità e sopravvivenza collettiva costituisce l’asse portante del film.

A House of Dynamite è una lente di lettura attenta delle dinamiche geopolitiche mondiali. Il missile, pur sospettato di provenire dalla Corea del Nord, in realtà pone interrogativi su possibili responsabilità esterne, incluso il coinvolgimento della Russia, tradizionale avversario strategico degli Stati Uniti.

Bigelow mostra come la gestione di un attacco nucleare non sia solo questione di intercettazioni o capacità militari, ma anche di diplomazia, comunicazioni internazionali e prevenzione di escalation incontrollate. Il film evidenzia inoltre il limite del concetto di deterrenza: la certezza dell’arsenale nucleare non garantisce immunità. Anzi, la dotazione di armi nucleari sempre più potenti e numerose, ne prefigura la necessità di utilizzo in caso di un attacco, la deterrenza è solo un falso velo protettivo morale, perché qualsiasi bomba è fatta per esplodere, qualsiasi arma è fatta per essere usata. Una volta che ci si costruisce l’immagine di superpotenza mondiale, se provocati, bisogna metterla in atto e concretizzarla di fronte al mondo intero, non ci si può tirare indietro.

L’esplosione di una bomba — anche isolata — può scatenare risposte automatiche, movimenti politici, fraintendimenti e decisioni basate sulla paura e sulla volontà di potere, piuttosto che sulla razionalità strategica e sul desiderio di pace mondiale.

Uno dei punti di forza del film è l’approfondimento psicologico dei personaggi. La sceneggiatura di Noah Oppenheim sceglie uno stile documentaristico per raccontare le azioni dei personaggi in un contesto di crisi, mettendone in evidenza l’ambiguità delle scelte morali e aprendo una prospettiva umana sul messaggio politico del film.

Il capitano capo dello staff, il Segretario della difesa e il Presidente vengono esplorati nella loro complessità: ognuno deve bilanciare competenza, autorità, responsabilità istituzionale e fragilità umana. Nell’emergenza non c’è tempo per farsi influenzare dalle emozioni personali, che non sono mai esplicitate attraverso il dialogo diretto, ma emergono dalle azioni, dagli sguardi, dai gesti minimi: un anello, una fotografia di famiglia, una video-chiamata alla moglie, diventano strumenti per raccontare l’angoscia. Non c’è spazio per farsi dominare dall’emotività, ma la profondità psicologica emerge inevitabilmente nel comportamento operativo, che da logico e strategico, diventa umano, emotivo e caotico.

Il Presidente, interpretato da Idris Elba, appare come un leader vicino alle persone, alla mano, ma di fronte alla crisi rivela la rigidità del ruolo: la necessità di non poter apparire debole, pur mantenendo un senso morale e politico coerente. Come Presidente USA spetta a lui la decisione impossibile imposta dal film: bisogna scegliere tra la resa e il suicidio. Tra l’accettare di essere colpiti al cuore dell’America senza fare niente, e il dare una risposta di forza, sfoderando l’arsenale più potente della terra, pur non avendo la certezza di chi sia il vero nemico e rischiando di aprire una frattura che condurrà all’olocausto nucleare mondiale.

La regia di Bigelow privilegia un iperrealismo dettagliato, che si manifesta nella sceneggiatura, nella fotografia e nel montaggio. Le inquadrature seguono i personaggi da vicino, facendo sentire lo spettatore dentro la scena, come se fosse parte integrante della crisi. Il montaggio è preciso e calibrato, dosando suspense e ritmo in un film interamente basato sui dialoghi, in cui la tensione nasce dall’intensità emotiva e dall’ansia della responsabilità più che dall’azione fisica.

Rispetto ad altri film di Bigelow, A House of Dynamite si svolge prevalentemente in ambienti chiusi — la sala crisi della Casa Bianca, gli uffici e le basi militari, perfino il presidente è all’interno di un’auto al telefono — dove i personaggi si interfacciano tra di loro attraverso gli schermi, in una conference-call determinante per il futuro del mondo. Questa virtualizzazione telematica mette in evidenza lo scarto tra l’esigenza umana di affrontare la crisi condividendo uno spazio reale di confronto e dialettica, e il dispositivo di gestione militare ottimizzato per fornire una risposta razionale, rapida ed efficace. La conference-call determina il destino del mondo, ma rivela la distanza tra la gestione algoritmica della crisi e l’angoscia fisica di chi ne subisce gli effetti.

Come negli altri film della regista c’è una riflessione sui dispositivi di esperienza e di visione del reale, ma se nei lavori precedenti si sfruttava appieno la grandezza di visione dell’esperienza cinematografica, in questo film si insiste sull’alienazione claustrofobica della visione attraverso gli schermi dei computer e dei telefoni. In questo senso la distribuzione del film sulla piattaforma Netflix non è solo un elemento produttivo, ma diventa un fattore che definisce il linguaggio, creando un rispecchiamento tra i personaggi chiusi nei bunker ad affrontare la minaccia nucleare e gli spettatori chiusi nelle loro case che assistono sul teleschermo all’agghiacciante epilogo della crisi.

House of Dynamite è un thriller politico che va oltre la tensione narrativa: il film invita a riflettere sul significato della guerra, della vita militare e del ruolo di chi è chiamato a prendere decisioni di portata globale. Il punto in discussione rimane la visione morale e politica che determina il senso di efficacia. La scelta e la decisione finale non può che essere umana. Ma come può essere umana all’interno di un dispositivo meccanico e funzionale, di stampo militare, che offre una sola alternativa: la resa o il suicidio.

La narrazione tripartita, la reiterazione dei venti minuti centrali e l’analisi dettagliata dei personaggi costruiscono un’opera che è al contempo realista, politica e profondamente umana. Bigelow conferma il suo ruolo di maestra del thriller politico-militare, capace di combinare rigore tecnico, profondità psicologica e riflessione etica in un film di altissimo livello, in cui la suspense nasce dalla tensione morale e non dall’azione spettacolare.