Il maestro non è un film sull’ultima passione di tutti gli italiani (dopo essere stati CT della Nazionale, direttori artistici di Sanremo, divorzisti di Ferragni e Fedez, e ora esegeti di Rosalía), vale a dire il tennis. Ma se il tennis porterà in sala tanta gente a vedere questa commedia che commedia non è, questo dramma che dramma non è, questo film sportivo che film sportivo non è, questo road movie che road movie non è, tanto meglio.

Da bambino per un anno ho giocato a tennis anch’io, come tutti. Ero sempre l’ultimo del gruppo, nelle garette allestite sui campi brianzoli. Poi l’anno dopo è arrivato uno che era peggio di me e mi sono sentito così sollevato, ma così sollevato, che ancora oggi che del tennis non mi frega niente quella sensazione lì ma fa stare bene. Più che sul tennis, Il maestro – diretto da Andrea Di Stefano, scritto con Ludovica Rampoldi, nelle sale dal 13 novembre con Vision Distribution – è questo: una storia sui fallimenti che possono diventare amici, e quando li rivedi a distanza di anni (o, come avviene qui, attraverso gli occhi di qualcun altro, che ti cambiano l’angolazione sulle cose) non ti fanno più male.

Non che mi abbia mai fatto male il tennis. Ma ciascuno, nella storia di Raul Gatti (nome bellissimo) e Felice, ci può mettere qualcosa di storto, impreciso e molto tenero che lo riguarda. La crocetta sbagliata nelle risposte del quiz della tua vita come se la aspettavano gli altri, il sogno in un cassetto che non si è mai chiuso bene, o semplicemente tutto quello che hai cambiato tu perché in quella parte lì non ci volevi più stare, non c’eri mai stato.

Anni Ottanta. Raul Gatti (Pierfrancesco Favino) è un ex campione passato dagli Internazionali di Roma, o così dice. Ora ha la panzetta e gli occhiali da sole fumé. Felice (Tiziano Menichelli, bravo giovane attore già visto nel poco visto Denti da squalo) è un ragazzino che da grande sicuramente leggerà Open. Il padre di Felice (Giovanni Ludeno), borghese piccolo piccolo, mette il figlio nelle mani di Gatti. Si fida di quello che quel tizio gli vende. Non parla come loro. Non si comporta come loro. È un gradasso, un gagà, uno che in casa loro non c’era entrato mai. Promette che a Felice farà vincere le gare in giro per l’Italia (mica come me). E allora via, si parte.

Raul Gatti è Pierfrancesco Favino, e questo è un film di Favino che film di Favino non è. Perché Favino può fare tutto, lo sappiamo, e insieme far scomparire tutto, far scomparire sé stesso e far apparire qualcos’altro. Scriveranno tutti che ci sono, in questo ruolo e in questa (grande) interpretazione, i colonnelli della nostra commedia. Ed è così, e non è così. Perché Il maestro è un film di oggi, sull’oggi. Sui successi così apparentemente facili, sul dover vincere sempre tutto, tutti.

Pierfrancesco Favino alias Raul Gatti. Foto: Katia Zavaglia

Ma Il maestro è anche un film su quello che eravamo ieri. Sull’Italia mappata, anche cinematograficamente, tra gli ombrelloni di Risi e i sapori di mare dei Vanzina, con una tenerezza allegra e itinerante, ma senza nostalgia. Tutto ciò che in questa storia è passato (i trofei, gli amori, le scelte) è guardato senza mai cascarci dentro. Come L’ultima notte di Amore era un noir che noir non era, così questa non è una commedia balneare, ma conserva quelle stanze con gli armadi di fòrmica, quei bar aperti anche di notte pure se non hanno clienti, quelle ragazze spiate al bar della spiaggia. Quell’umanità che, in questo Paese immobile, è sempre uguale. (E la precisione sta anche nella scelta delle facce di chi sta attorno a Raul e Felice: Ludeno, Valentina Bellè, Dora Romano, Paolo Briguglia, Chiara Bassermann, Astrid Meloni, e Edwige Fenech che è una citazione che citazione non è – è il ricordo di un sentimento collettivo).

Il titolo te lo dice dall’inizio, ce l’hai lì davanti agli occhi, ma è come se te lo dimenticassi. E invece sì, questo è proprio un film sui maestri, guarda un po’. Quelli fortuiti, quelli sbagliati. «[Tanti] sono stati maestri nonostante loro», mi ha detto Valeria Golino in una chiacchierata di qualche tempo fa. «Non è che lo volessero essere, che volessero veramente insegnarmi qualcosa: bastava stargli vicino». A Raul Gatti basta stare vicino. Per imparare tutto e poi disimpararlo, e imparare qualcos’altro che questo ragazzino forse scoprirà dopo, chissà. E, alla fine, Il maestro è un film per noi che forse abbiamo già imparato e disimparato tutto. Nonostante noi.