Pone parecchi problemi l’approvazione parlamentare, sia pur solo in prima lettura, della norma che introduce in Israele la pena capitale per alcuni atti di terrorismo. Si tratta di problemi giuridici, politici e morali che investiranno – dividendola – la società israeliana e che, soprattutto, richiameranno sullo Stato ebraico un’altra dose di attenzione certamente non benevola della comunità internazionale.

Va detto che il dibattito in argomento non è affatto nuovo in Israele. C’era ed era già vivace prima del pogrom del 7 ottobre di due anni fa; continua adesso, e comprensibilmente ha preso intensità dopo i massacri e i rapimenti del Sabato Nero. Non è estraneo a quel dibattito il timore (in realtà è una certezza) che lo Stato ebraico possa essere costretto un’altra volta, per riscattare la vita o anche soltanto i corpi di israeliani rapiti, a liberare detenuti responsabili di gravi atti di terrorismo. E il timore non riguarda l’impunità che in quel modo si determinerebbe per i delitti già commessi dai soggetti così rimessi in libertà, ma il pericolo serissimo che essi possano tornare a compierne (il tasso di recidiva terroristica è altissimo). Il ragionamento, brutale, è che il problema si pone fin tanto che sono di questo mondo i terroristi che Israele potrebbe essere costretto a liberare: se sono morti, il problema non c’è.

Per capire che non si tratta di una questione ipotetica e di una eventualità teorica basta pensare al caso di un terrorista palestinese liberato da Israele ormai molti anni fa, con altre centinaia di detenuti, per ottenere il riscatto di un solo ostaggio israeliano: quel terrorista palestinese si chiamava Yahya Sinwar, e avrebbe adoperato la riconquistata libertà per organizzare e mettere in esecuzione il più spaventoso eccidio di ebrei dal tempo della Shoah. Non si discute, dunque, del fatto che il problema esista e sia assai serio.

Ma il fatto che sia tale – e che tocchi un nervo delicato e scopertissimo della società israeliana – non toglie che giustiziare quei terroristi costituisce una soluzione che fronteggia troppi, e troppo gravi, motivi di contrarietà. A cominciare da questo: se quell’ipotesi dovesse diventare legge, e se questa dovesse essere applicata, significherebbe da qui in avanti mandare a morte centinaia di persone. Israele, ovviamente, non diventerebbe l’ordinamento delle impiccagioni che giustizia i dissidenti o sfonda il cranio delle ragazze con le ciocche di capelli fuori posto, ma si presterebbe a trasformare il proprio sistema giudiziario in una cupa industria delle soppressioni per via processuale. E lo farebbe, si ripete, travalicando irrimediabilmente limiti giuridici, politici e morali troppo importanti per essere trascurati pur in nome di quelle indiscutibili valutazioni sulla sicurezza nazionale e dei propri cittadini.

La norma approvata vuole che sia punito, appunto con la morte, l’omicidio terroristico di stampo razziale, rivolto ad attentare alla presenza del popolo ebraico nella sua terra. Si può essere certi che minacciare e irrogare la pena di morte nei confronti di chi, uccidendo, mira all’espianto degli ebrei da Israele non otterrebbe proprio nessun risultato, neppure in termini di sicurezza e prevenzione. E dovrebbe bastare questo per giudicare negativamente la soluzione, anche senza evocare le considerazioni di carattere umanitario che autonomamente ne condannerebbero il fondamento di inciviltà e – usiamo la parola – l’evidente ingiustizia.

Iuri Maria Prado