Ammettiamolo: Hollywood sta cercando disperatamente di riportare la Gen Z nelle sale cinematografiche. Questa generazione, pur avendo un enorme potere d’acquisto, tende infatti a preferire i contenuti veloci e immediati sui social network ai film proiettati in sala. Studi recenti mostrano che i più giovani non stanno solo evitando i cinema, ma stanno progressivamente rinunciando alla visione di film in generale, sostituendoli con contenuti “mordi e fuggi” su piattaforme come TikTok e Instagram. Questo fenomeno sta scuotendo l’industria, costringendo i grandi studios a rivedere le proprie strategie.
In questo contesto arriva House on Eden, un nuovo film horror found footage prodotto da Shudder e RLJE Films che sta facendo discutere per motivi che vanno ben oltre la trama. Il progetto segna il debutto sul grande schermo di tre popolarissimi creator: Kris Collins (@KallMeKris), Celina Myers (@CelinaSpookyBoo) e Jason-Christopher Mayer, che insieme contano oltre 75 milioni di follower su TikTok. Il film, realizzato con una struttura semi-improvvisata sul modello di The Blair Witch Project, segue un gruppo di amici che documenta con le proprie videocamere la permanenza in una casa infestata.
Ma ciò che rende House on Eden davvero inquietante non sono i fantasmi. Il vero orrore nasce dalla sensazione di trovarsi di fronte a persone che hanno trascorso anni a confezionare ogni pensiero e ogni emozione per il pubblico, cercando di apparire “autentiche”. Sul grande schermo, questa abitudine produce un effetto disturbante: il confine tra realtà e messa in scena appare sottilissimo, tanto da risultare quasi disumanizzante.
Gran parte del film è dedicata alla costruzione dei personaggi, alle loro battute e interazioni quotidiane. Tuttavia, per chi non ha già un legame con questi influencer, la narrazione fatica a risultare credibile. Ogni gesto, ogni frase sembra calibrata per compiacere un algoritmo invisibile, frutto di anni di feedback istantaneo e di tentativi di evitare polemiche online. Il risultato è un tipo di “realismo” che appare finto, artificiale, privo di quella spontaneità che dovrebbe caratterizzare i momenti più intimi.
Questo fenomeno è legato a una tendenza più ampia: gli studios hollywoodiani sono sempre più convinti che ingaggiare influencer famosi sia la chiave per riportare il pubblico in sala. Ma i dati raccontano una storia diversa. Grandi numeri sui social non equivalgono necessariamente a biglietti venduti: se fosse così, film come Thanksgiving di Eli Roth, che poteva contare della presenza nel proprio cast di Addison Rae, avrebbero sbancato il botteghino, e programmi come The D’Amelio Show non sarebbero stati cancellati dopo poche stagioni.
House on Eden diventa così l’esempio perfetto di un’industria che rischia di sacrificare l’arte sull’altare dell’engagement. La pellicola, pur riproponendo cliché horror già visti, viene applaudita da molti fan più per la presenza dei loro “idoli digitali” che per il suo reale valore cinematografico. Questo non significa che i creator coinvolti non abbiano talento – al contrario, Collins e Myers hanno dimostrato nel tempo grande creatività nei contenuti brevi – ma l’adattamento a un formato narrativo lungo evidenzia tutti i limiti di una performance costruita per essere virale.
Il film lascia quindi un retrogusto amaro: non tanto per le sue creature soprannaturali, quanto per la sensazione di assistere a un futuro dell’intrattenimento in cui l’algoritmo sembra contare più delle storie. Un futuro che, più che spaventare con jump scare, inquieta per ciò che rivela sul nostro modo di vivere e di guardare il mondo.
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Fonte: SlashFilm
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