di
Greta Privitera
Jesse Hughes, frontman del gruppo che il 13 novembre 2015 suonava al Bataclan di Parigi: «Ci sono stati momenti in cui ho sperato di dimenticare qualcosa, qualche dettaglio, ma è ancora tutto lì»
Kiss the evil — Bacia il diavolo — è alle note finali. Gli ultimi colpi alla cassa e al rullante sono intermezzati da tonfi più forti che Julian Dorio, il batterista, non riconosce. I musicisti, disorientati, smettono di suonare. Le luci sono spente, tranne qualche faro che illumina il palco. Sparano raffiche. C’è panico in sala. Julian si butta sotto la batteria. Matt McJunkins, il bassista, si nasconde dietro una tenda con Eden Galindo, il chitarrista.
«Ma è l’espressione di Davey Joe (l’altro chitarrista, ndr) che ho davanti agli occhi», racconta Jesse Hughes, frontman degli Eagles of Death Metal, la band rock dalla California che il 13 novembre 2015 si esibisce al Bataclan quando tre terroristi fanno irruzione e uccidono 90 persone. Ora le luci sono accese. Joe rimane immobile, con la chitarra al collo. Osserva incredulo gli uomini armati fino ai denti sterminare ragazzi e ragazze che fino a qualche secondo prima ballavano e cantavano. «Corri, amico», gli urla Hughes, mentre scende dal palco e cerca la sua fidanzata, Tuesday. Oggi è a Parigi per il decimo anniversario della strage.
Suonerete stasera?
«Non posso ancora dire quali sono i programmi, ma abbiamo organizzato qualcosa di speciale».
Ci sarete tutti?
«No, solo io e Julian».
Che cosa ricorda di quella notte?
«Il concerto era iniziato da un’ora, eravamo carichissimi. Ho chiari i volti sudati e felici dei giovani che cantavano con noi. Ho chiaro anche l’inferno. In questi dieci anni ci sono stati dei momenti in cui ho sperato di dimenticare qualcosa, qualche dettaglio, ma è ancora tutto lì».
Ha sofferto di disturbo traumatico da stress?
«Non credo. Non ho mai fatto incubi, dormo, suono e mi reputo felice. Ma non c’è giorno che il Bataclan non passi dalla mia testa. Immagini, storie, persino l’odore di quella sera sta con me».
Quali storie?
«I figli di p… ridevano. Si sentivano forti in mezzo a centinaia di persone disarmate. Sparavano senza pietà. Ricordo i ragazzi che in ginocchio supplicavano “S’il te plaît”, “S’il te plaît, non uccidermi”. Premevano il grilletto, come fosse un gioco. Ricordo chi è morto per fare da scudo e difendere dai proiettili gli amici o gli amori. Stavamo festeggiando la vita. E loro volevano toglierci tutto, ma non ce l’hanno fatta».
Che cosa intende?
«Alla fine, quello che è rimasto non è la morte e l’orrore, come speravano gli assassini: in questo hanno fallito. Io sono credente, ma dal Bataclan ho visto uscire esempi di amore, unità e fede nel rock and roll che non potevo immaginare. Alcuni dei sopravvissuti hanno iniziato a scrivere, altri a suonare, altri ancora hanno fondato associazioni».
Sente ancora i ragazzi e le ragazze del Bataclan?
«In quei giorni ho fatto a tutti una promessa: ci sarei stato per chiunque avesse avuto voglia di chiamarmi. Tengo stretti contatti con circa 500 persone. Alcuni di loro per me sono come famiglia».
Ha seguito il processo di Salah Abdeslam, il terrorista delle sparatorie del Café Bonne Bière e della pizzeria Casa Nostra?
«Non ho alcun interesse verso quella persona, non è nulla per me».
Suona?
«Eccome se suono. Dopo il Bataclan suono ancora più forte di prima, come chi pensa che potrebbe essere l’ultima volta. Con Josh Homme (anche lui fondatore degli EoDM e leader dei Queens of The Stone Age) stiamo scrivendo un nuovo album che dovrebbe uscire l’anno prossimo. Vogliamo organizzare tour negli Stati Uniti e in Europa».
Si dice che chi esce da stragi come quella del Bataclan può soffrire della sindrome del sopravvissuto.
«Mi sono sentito in colpa di essere stato come un grosso pezzo di formaggio in una trappola contro i miei amici. Come l’esca all’estremità di un amo. Ma poi sono riuscito a mettere la colpa esattamente dove deve andare».
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13 novembre 2025 ( modifica il 13 novembre 2025 | 07:14)
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