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Non faceva concerti addirittura dal 2019, complice la pandemia, prima, e la malattia poi, un tumore polmonare che l’aveva colpito a marzo 2022, “per cui mi avevano dato pochissime speranza”. È guarito e la sera dell’11 novembre Luca Carboni è tornato sul palco, là dove il tempo davvero sembrava essersi fermato. Non tanto per la tenuta fisica – va detto, eccellente, per quasi tre ore filate di live – ma per l’aria che avvolge le sue canzoni, palesemente ormai fuori da ogni sorta di riferimento contemporaneo, ma che non per questo suonano come oggetti d’antiquariato, anzi. All’inizio emozionatissimo e – dice – “terrorizzato” e poi via via più sciolto, al Forum di Assago ha chiuso una ripresa delle esibizioni cominciata quest’estate, da ospite fisso del tour di Cesare Cremonini, con cui ha cantato San Luca (2024). Al momento, non c’è tanto altro da aggiungere: ha parlato di una rinascita (e infatti ha aperto con Primavera) e dopo lo show ha ammesso di star pensando a un album e di essere al lavoro su un libro autobiografico ma, insomma, per nuova musica bisognerà aspettare ancora, vuole più che altro vivere alla giornata (nel 2026 replica a Roma e Bologna, chissà che non vada come special guest a Sanremo, anche se non ha mai avuto particolare simpatia per il Festival).
Far parlare le canzoni
Tra gli ospiti della serata, tenera, minimale e a tratti ironica, come da ricetta della casa, c’erano lo stesso Cremonini, Elisa e Jovanotti, con i primi due che gli devono parte del proprio background e il terzo che gli deve direttamente una parte di carriera, come lui stesso ha ricordato, quando Carboni nel 1992 lo portò in tour nei palasport per la prima volta, dandogli per primo una credibilità “da cantautore” e una grande platea che Jovanotti non aveva mai visto. Perché sì, c’è stato un momento, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, in cui Carboni è stato uno dei più grandi in circolazione, in cui con canzoni come Silvia lo sai, Farfallina, Mare mare e Ci vuole un fisico bestiale dominava le classifiche a colpi di centinaia di migliaia di copie vendute. E capiamoci: tutto ciò era strano anche all’epoca. Le nuove generazioni l’hanno riscoperto senza tenerne conto intorno al 2015, con i successi di Luca lo stesso e Bologna è una regola, quando ha fatto da ponte con la scena indie-pop di Calcutta e TheGiornalisti, che in quel momento stava per esplodere e non ha mai fatto mistero di ritenerlo uno dei suoi padri spirituali. Alle nuovissime, invece, forse sarà del tutto sfuggito, ma in generale è proprio la lezione che c’insegna il percorso di Carboni tutto – e che vale anche per chi l’ha vissuto all’epoca e, forse, l’ha dimenticato, perlomeno a giudicare dal mercato di oggi – a essere preziosa.
La stranezza, dicevamo. Forse, oggi, l’unico vero erede del suo spirito è Lucio Corsi. Non a livello di suoni e di estetica, visto che Corsi fa una sorta di glam rock e punta sull’aspetto visivo, mentre Carboni era un antidivo per eccellenza, profilo bassissimo. Il fatto è che Corsi, pur con le dovute proporzioni in primis di durata, che andranno misurate, ha dato voce a un certo tipo di malessere, in qualche modo è un cantante generazionale perché ha mostrato che la strada si può effettivamente percorrere contromano, che il pubblico è disposto a farlo e che soprattutto quell’insofferenza (nel suo caso, verso una musica forzosamente vincente e di plastica) è vera, ma non per questo bisogna arrendersi. Ecco, lo stesso era stato Carboni, un vero cortocircuito del suo tempo: mentre gli altri cantavano l’edonismo di rito, lui si rifaceva ai cantautori (considerati superati) del decennio prima, diceva – prima canzone in assoluto – che Ci stiamo sbagliando (1984), cantava la malinconia, la tenerezza, la disillusione, comunque l’intimismo; cantava piano, soprattutto, in un’epoca che urlava, e ballava. Eppure in milioni, forse in difficoltà con il mondo, com’è pure normale, lo amavano. Se si pensa che con Mare mare, l’anti-tormentone per eccellenza, ha vinto addirittura il Festivalbar, il ribaltamento è totale. Perché di pop, Carboni, ha sempre e solo avuto giusto i ritornelli, e a volte neanche quelli. E della popstar, soprattutto, niente di niente.
Parentesi: vedendolo con gli occhi che brillano per tre ore, perfino goffo nel godersi gli applausi di un Forum murato, l’impressione è di avere davanti un puro, uno che fosse stato più farabutto, come a certi livelli si chiede, forse all’affetto sincero che tanta critica oggi nutre per lui sostituirebbe proprio una santificazione, da venerato maestro, ma vabbè.
Un artista a cui volere bene
Chiaro, era e resta una mosca bianca e forse una volta il mercato era più generoso, ma la chiave nostalgica con cui vengono vissuti oggi molti suoi pezzi – o almeno, questa è stata l’atmosfera dominante del bel concerto del Forum, età media del pubblico superiore a quarant’anni, voglia di ricordi – non deve trarci in inganno. Cinque stagioni fuori dalle scene, oggi come oggi, sono un’eternità anche per un classico come lui, basta vedere la voglia di revival che c’è in giro, grandissimi compresi (Venditti e De Gregori, tra i tanti). Eppure, le sue canzoni così fuori moda non hanno perso fascino, né a livello musicale – appunto, per gli eredi che ha oggi – e né a livello di testi. Sono preziose: con Carboni ci si commuove e ci si spoglia, perché canta come pochi l’intimità, la dolcezza, la tenerezza, la tristezza, senza mai essere smielato, né tragico, semmai sempre con un tocco umano, vicino a chi ascolta. È questa la chiave: alla faccia della musica che spersonalizza – e che, s’intende, c’era anche alla sua epoca – i suoi pezzi mettono al centro l’essere umano, sia quello che le canta o quello che le sente. Le fragilità, la felicità, il dolore. Senza effetti speciali, ma anche senza intellettualismo. Per questo, più che un artista da ammirare o in cui rivedersi, ecco, Carboni è sempre stato uno a cui voler bene. Tradotto: uno che non passa mai davvero e, anzi, è pure pronto a tornare.