Sabato 14 novembre 2015, ore 13. Dieci anni meno un giorno fa. Il treno partito dalla stazione Garibaldi di Milano entra alla Gare de Lyon di Parigi. Sul binario, una signora aspetta con il viso sconvolto un uomo che potrebbe essere il marito. Per tutto il viaggio il controllore è stato assalito da domande senza risposta: se chiudono le frontiere, se bloccano la circolazione, se non ci lasciano scendere. A metà tragitto, molto dopo aver attraversato le Alpi, il cellulare si è illuminato: è arrivata una foto di Valeria, la ricercatrice italiana Valeria Solesin, e una scritta “scomparsa”. O forse solo “urgente”. Era a un concerto al Bataclan, non la trovano. Dovrebbe essere stata portata in ospedale ed è stata separata dal suo compagno. Chiedono di far girare l’appello. È il caos. Meno di 24 ore fa, l’Europa, così per come la conoscevamo, ha smesso di esistere. Ancora non lo sappiamo, ma è iniziato un tempo nuovo. Un commando di terroristi partiti dal Belgio è arrivato nel cuore di Parigi e ha assaltato la città: un kamikaze si è fatto saltare in aria davanti allo Stade de France, gli altri a bordo di macchine hanno preso a fucilate le persone di sei bar sparsi tra il X° e l’XI°esimo arrondissement. I quartieri con i tavolini sulle terrazze anche quando è freddo, dove ci si rifugia il weekend per festeggiare il fatto di essere vivi. In tre sono entrati al Bataclan e per ore hanno sparato sulla folla. Ancora, i passeggeri del treno partito da Milano non lo sanno, ma i morti saranno 130 e i feriti più di 400. Ancora, non sanno che Valeria Solesin non è ricoverata perché ad ucciderla sono stati i terroristi. Nell’aria, quando il treno entra a la Gare de Lyon, c’è tutto questo. Eppure i passeggeri non se ne rendono conto. Si aprono le porte. La donna sconvolta abbraccia il marito, poi si allontanano camminando svelti. All’uscita qualche macchina, altri passeggeri frastornati. Poi, di fronte, una strada deserta come se fosse stato annunciato un coprifuoco.
L’ultima pallottola è stata sparata a mezzanotte e venti, ma quello che è successo è talmente enorme che nessuno sa cosa aspettarsi ancora. A Parigi, da alcune ore, c’è lo stato d’emergenza. Come se fosse scoppiata la guerra, solo che non si capisce neppure chi sia il nemico. Per qualche ora la città è paralizzata: spareranno ancora? Ci sono altri terroristi nascosti? I falsi allarmi sono decine. Poi, piano piano, le persone iniziano a uscire e ad andare in pellegrinaggio sui luoghi degli attacchi. Si avvicinano ai fori di proiettile e ai vetri spaccati: vogliono capire se è successo davvero l’indicibile. L’inimmaginabile. Vogliono toccare quello che hanno visto in tv. Si abbracciano, piangono. Si stringono. Portano fiori e messaggi, lasciano disegni e candele. Ogni tanto una voce metallica avverte che “non si possono fare assembramenti”. Nessuno la ascolta. A disperdere le persone sono piuttosto i rumori improvvisi: basta una moto, un’auto che passa veloce, per far scattare la corsa. La gente fugge, a Parigi, per paura degli attentati. È il mondo nuovo, ed è appena cominciato. Dieci anni sono passati come un lampo: come dice una delle sopravvissute, Catherine Bertrand, “sono tanti e sono pochi”. La città ha cambiato mille volti, altrettanti governi e due presidenti. Ha rifatto le vetrine, riaperto i bar e costruito un giardino memoriale che ricorda tutti i morti. È rinata grazie alle Olimpiadi che hanno fatto iniezioni di splendore, in un luogo espugnato da carneficine che al massimo si vedevano sui fronti di guerra. Le tracce di quello che è stato sono poche, nascoste. Quelle più grandi sono invisibili, marchiate a fuoco nella mente. Sono le ferite di un trauma collettivo che continua a segnare la storia di una Capitale. Ma anche di tutta l’Europa.
Dopo gli attentati la storia è andata molto in fretta: il Covid, la guerra in Ucraina, il genocidio a Gaza. Se ai francesi chiedi a cosa pensano, diranno la crisi economica, l’arrivo di Marine Le Pen al potere, un presidente tra i meno amati di sempre. Il terrorismo è una pagina oscura che non tutti hanno voglia di ricordare. Ma lo chiedono le vittime, i sopravvissuti, le loro famiglie. Nella disperata ricerca di una consolazione, chiedono di non dimenticare. Perché potrebbe succedere ancora.
21.20: esplosioni allo Stade de France
Sophie Dias quando parla del papà tiene una mano che preme sullo stomaco, come se potesse bloccare il magone. É la figlia di Manuel, autista portoghese e prima vittima del kamikaze che si è fatto saltare in aria allo Stade de France alle 21.20 del 13 novembre. Succede in rue Jules-Rimet, di fronte al bar Events e poco distante dall’ingresso della porta D/E. “Aveva accompagnato un gruppo di tifosi”, racconta Dias. “L’avevo sentito due ore prima. Voleva sapere come andavano i preparativi del mio matrimonio”. È l’inizio di tutto: qui gli attentatori tentano di entrare durante l’amichevole Francia-Germania.
Il primo a farsi saltare in aria è Bilal Hadfi che uccide Manuel Dias. Seguono altre due esplosioni di due kamikaze che però non fanno morti. Ce ne sarebbe dovuta essere un’altra, quella di Salah Abdeslam che però rinuncia e fugge in Belgio quella stessa notte: è l’unico terrorista di quella sera a essere stato condannato in un processo storico. Nel frattempo sono iniziate le sparatorie nel centro della città, il presidente François Hollande è in tribuna: viene avvisato, ma non si muove per non far scoppiare il panico. La partita viene giocata fino alla fine. Molti francesi che la stanno seguendo in tv, vanno a letto senza sapere niente. Dopo, si dirà che calciatori e tifosi avevano sospettato qualcosa: i boati sono stati diversi dal solito, non da petardi, non da tifo delle curve. Eppure tutto è andato avanti normalmente. Dentro c’erano 80mila persone, i morti avrebbero potuto essere migliaia.
Allo Stade de France, di quella notte, resta solo una targa. Sophie è tornata perché l’associazione delle vittime ha organizzato una maratona, partita proprio dal punto in cui è morto il suo papà. Prima di partire per la corsa, le persone in pantaloncini e maglietta arancione si fermano a stringerle la mano. Qualcuno dice “grazie” e lei ingoiando l’emozione risponde “a voi”. Finalmente anche il suo papà è stato ricordato. Essere la prima vittima di una carneficina in un posto dove se ne sono salvate altre 80mila ti condanna all’oblio. Sophie cerca di dargli un volto: “Mio papà era un fan del calcio, al punto di trovarsi nelle feste di famiglia con la radio e il telefono per seguire due o tre match insieme”, sorride. Di quella notte ricorda le ore passate “a chiamare gli ospedali e la polizia”: “Dicevano che non era sulla lista dei morti. Un buon segno. Poi ho sentito l’ambasciata portoghese e mi hanno dato la notizia. Non volevo crederci. Ho dovuto annunciarlo alla mia famiglia. È difficile affrontare un lutto così, perché è qualcosa che non si vede. Le persone non sanno come ti senti. Dicono che bisogna andare avanti. Ma non è possibile. Mi sono sposata lo stesso anno, io e mio fratello abbiamo avuto dei bambini. È duro vivere senza di lui. Perché era un papà che c’era a tutte le ore. Era lui in macchina ad aspettarmi dopo la maturità e l’esame di scuola guida. Lui mi ha chiamato due giorni prima quando sono arrivata all’aeroporto, lui ho sentito poco prima degli attentati”. Manuel Dias due ore prima di morire voleva sapere da sua figlia Sophie se era tutto pronto per quando l’avrebbe accompagnata all’altare. Non succederà mai.
21.25: parte l’assalto ai ristoranti
Proprio mentre allo Stade de France i tre kamikaze si fanno saltare in aria, a meno di 10 chilometri di distanza due auto sfrecciano per il X° arrondissement e sparano mitragliate contro alcuni bar. Alle 21,25, vicino al Canal Saint Martin, il commando si butta nella curva che incrocia rue Alibert con rue Bichat e colpisce i due locali all’angolo: “Le Petit Cambodge” e “Le Carillon”: muoiono 13 persone.
Sono due punti di riferimento per il quartiere che si affacciano l’uno sull’altro: da una parte il ristorante che fa cibo asiatico. Dall’altro il classico bistrot parigino con le tende bordeaux. Sono i bar che sfuggono al turismo, quelli conosciuti da chi vive i quartieri e sa dove trovare l’ambiente familiare. Qui sono morte le due gemelle Charlotte e Emilie Meaud: come da rito del venerdì, erano passate dopo il lavoro per una birra. Ma anche Anna e Marion Pétard-Liefrig, altre due sorelle ventenni che avevano dato appuntamento a un’amica: stavano per andare via, quando sono arrivati i terroristi.
Oggi di quella notte, non c’è più alcun segno. Le Petit Cambodge ha sempre le tende gialle, ma si è completamente rinnovato. Nei primi mesi aveva tenuto un mosaico all’interno per ricordare le vittime, ma poi ci sono stati i lavori di restauro ed è stato tolto. Di fronte, Le Carillon ha cambiato colori e ora il tendaggio è blu. Dentro rimane lo stesso bancone in legno, ma niente di più. Nessuno vuole parlare: il barista dice solo che lui, quel giorno aveva finito il turno presto. Sul resto, silenzio. Eppure tutti, nel quartiere, sanno cosa rappresenta quell’incrocio.
“Mio papà”, racconta Anna, “andava al Petit Cambodge tutti i venerdì sera, senza eccezione. Quella volta mia sorella lo ha convinto a cambiare e gli ha salvato la vita. Solo che noi non lo sapevamo e abbiamo passato ore a cercare di contattarli”. I telefoni non andavano, tutti chiamavano tutti. Emma invece racconta di un amico che 25 minuti prima dell’attacco ha inviato un messaggio in chat con la foto di un bar lì di fianco. “Un’ora dopo abbiamo visto le immagini in tv degli spari e abbiamo iniziato a cercarlo dappertutto. Lui per fortuna è riuscito a mettersi in salvo in una delle case vicine”.
21.32: gli spari nei Café Bonne Bière e Casa Nostra
La stessa auto, una Seat nera immatricolata in Belgio, percorre poi meno di un chilometro e alle 21.32 attacca altri due bar: colpiscono la terrazza de la Bonne Bière, uccidendo cinque persone, e poi nella fuga sparano contro il ristorante Casa Nostra all’angolo. Il bistrot francese, dopo gli attentati, è stato tra i primi a riaprire. Anche qui, nessuna traccia di quello che è stato. I colori sono cambiati: le tende ora sono verde salvia, ma c’è sempre la fila di tavolini all’aperto.
Se fuori non c’è traccia del dolore di quella notte, dentro le cose cambiano: è un luogo di clienti abituali e i nomi di chi non c’è più li conoscono a memoria. Lucie, Nicolas, Elif, Milko, Kheir-Eddine. A ricordarli ci pensa una targa piantata nel giardino di fronte. Dall’altro lato della strada invece, il locale che faceva cucina italiana, ha chiuso per sempre.
21.36: la Belle Equipe
Alle 21.36 i terroristi arrivano alla Belle Équipe. Anche qui sparano contro la terrazza e uccidono ventuno persone. Di queste, nove sono baristi e camerieri. Oggi il bar non ha segni ufficiali, ma i proprietari hanno scelto di mettere su ogni tavolino un papavero. I papaveri sono anche su due affreschi all’ingresso, a destra e sinistra. Riempiono tutte le pareti.
Sono un simbolo usato per ricordare i morti della prima guerra mondiale e che oggi è stato scelto per le vittime degli attentati. Rievoca la pace. Di quella notte tutto il quartiere porta il segno. Jean-Luc Wertenchlag abita al piano di sopra ed è una delle prime persone arrivata sul posto: “Ho sentito gli spari, li ho riconosciuti subito. Ho detto a mia figlia di mettersi al sicuro e dalla finestra sono riuscito a scattare una foto che poi ho consegnato alla polizia”. A quel punto, lui che di mestiere è soccorritore, è sceso “senza pensare”: “L’ambulanza ci ha messo 27 minuti ad arrivare, un tempo infinito. Mi sono potuto occupare di una persona: si è salvata perché ho usato la mia cintura per fermare l’emorragia e la maglietta per tamponare il sangue. Non vedevo altro intorno, ma sentivo che altri avevano bisogno d’aiuto e io non sapevo come fare”.
Da quel giorno Jean-Luc gira con un marsupio di primo soccorso sempre legato in vita: “Non deve mai più capitare che non ho il necessario per aiutare più persone possibile”. La figlia Opale, che aveva solo 15 anni, lo ascolta: “Ricordo la paura, in casa da sola. La mamma era al lavoro e mi ha detto di andare dalla vicina. Guardavo dalla finestra per cercare il papà e non ho chiuso occhio finché non è rientrato”.
21.40: il Comptoir Voltaire
L’ultima tappa dei terroristi delle “terrasse” è il bar Comptoir Voltaire. Sono le 21.40, il bar dista solo un altro chilometro. Brahim Adbeslam, fratello del Salah scappato in Belgio, scende dall’auto, entra nella terrazza del bar e mentre una cameriera si avvicina per chiedergli di ordinare, aziona il gilet esplosivo. Per puro caso, non ci sono morti, ma solo feriti.
Uno dei clienti, un infermiere, interviene per rianimare il kamikaze: mentre gli pratica il massaggio cardiaco si accorge dei fili e i proiettili che escono dal giubbotto. L’intervento è comunque inutile.
Oggi il bar ha cambiato nome in Les Ogres ed è ancora il punto di riferimento del quartiere. Alcuni dei clienti presenti quel giorno, ancora lo frequentano. Le loro cicatrici sono l’unica traccia di quella notte.
21.40: il Bataclan
Sembra finita, eppure se un peggio può esistere deve ancora cominciare. Sono passate da poco le 21.40 e un commando di altri tre uomini entra al Bataclan, a due chilometri e mezzo di distanza dall’ultima esplosione del kamikaze. Nella sala da concerti ci sono 1500 persone, da qui alla fine della presa degli ostaggi ne moriranno 90 e le altre usciranno traumatizzate per sempre. Quello che succede dentro è stato raccontato ai giornali, le tv, ripetuto al processo. Le testimonianze sono atrocemente simili e ricostruiscono ore di carneficina durante le quali le persone o sono morte o, per salvarsi, hanno finto di esserlo.
Sul palco, il gruppo “Eagles of Death Metal” suona da venti minuti quando partono gli spari. Subito, lo sappiamo, tutti pensano a dei petardi. Ma pochi istanti dopo è chiaro che è iniziata una strage. Gli attentatori gridano “Allah Akbar” e accusano “Hollande per quello che ha fatto in Siria”. Chi è nella fossa, si butta per terra, uno sopra l’altro. Basta un cellulare che suona e arriva una fucilata. Le persone ricordano il sangue caldo che cola. A volte è il loro, altre quello di amici o sconosciuti. A volte è il loro, altre quello dei propri amici o fidanzati o semplicemente vicini di concerto. Le prime forze di polizia arrivano alle 21.51 e parlano di “scena di guerra”. Alle 22 due agenti entrano e uccidono uno dei terroristi, facendogli esplodere il giubbotto. Gli altri si barricano al piano superiore con venti ostaggi e sparano dalle finestre. Si tentano alcune negoziazioni, ma senza risultato. Alle 00.18 c’è l’ultimo assalto degli agenti: i due terroristi azionano i giubbotti e muoiono. Quello che succede in quella fossa è ancora difficile da capire per chi non c’era: la morte che arriva senza alcuna logica, le chance di salvezza come in una roulette. Alle vittime che non sono riuscite a uscire dalla sala, si aggiungono i sopravvissuti rimasti intrappolati nei flashback.
“Io sono la compagna di Fred Dewilde, illustratore e fumettista che si è ucciso il 5 maggio 2024”, scandisce Marianne Mazas. Aveva 57 anni ed era uno dei volti delle vittime del Bataclan: rimasto sdraiato per terra per due ore, di fianco a un giovane uomo morto e a una ragazza ferita con cui si è tenuto per mano. Diceva: “Non sono mai uscito da lì”. Anche se, sul fisico non aveva ferite. “Lui ha cercato con i suoi disegni di raccontare l’interno della sua anima, erano rappresentazioni terribilmente nere e dure”, ricorda la compagna sforzandosi di non crollare. “Il peso del trauma è stato troppo per lui. E non ce l’ha fatta, nonostante il suo coraggio. È stato devastante per noi che siamo rimasti. È la prova che lo stress post traumatico è come un serpente insidioso, un veleno lento che può uccidere anche dopo anni. Non possiamo lasciare sole queste vittime, va rispettato il loro tempo per ricostruirsi”.
Il Bataclan ha riaperto un anno dopo gli attentati e ora funziona a pieno regime. L’insegna dell’ingresso all’esterno era rossa, ora è blu. A pochi giorni dalle commemorazioni dei dieci anni, davanti all’ingresso si ammassano gruppi di ragazzi venuti a sentire il gruppo “The plot in you”. Un ventenne porta un giubbotto con la scritta: “Only dead is real”, solo la morte è reale. Una citazione musicale, senza nessun legame. Il ragazzo quasi non si ricorda dove fosse quel 13 novembre.
18 novembre: Saint Denis
Se Parigi si è ricostruita e le tracce degli attentati vanno cercate nelle targhe e nei traumi psicologici, c’è un luogo che ancora resta in macerie. E non è nel centro della città. Bisogna spostarsi a Saint-Denis, comune della banlieue a meno di mezz’ora di strada dal Nord della capitale. Qui, il 18 novembre alle 4 di notte, le forze di polizia assaltano il covo degli attentatori di rue de la Republique 48, angolo con Rue du Corbillon: dopo sette ore di sparatoria e 1500 colpi sparati, muoiono la mente degli attacchi Abdelhamid Abbaoud e Chakib Akrouh, che si fa esplodere. La cugina di Abbaoud, Hasna Aït Boulahcen muore asfissiata sotto le macerie.
La guerra torna in Francia, questa volta nella banlieue alle porte della Capitale. Siamo nel pieno centro, la via dei negozi principali: a 160 passi di distanza c’è una scuola elementare. A meno di 500 metri la piazza del Comune. L’edificio è abitato da 45 famiglie, 80 persone che durante l’assalto degli agenti si nascondono dentro gli armadi, sotto il letto. Alcune di quelle case sono subaffittate da proprietari che organizzano giri di affitti in nero. Dopo la sparatoria, le persone vengono evacuate: prima in una palestra, poi negli hotel. Loro ci hanno messo sei lunghi anni a farsi riconoscere come vittime di terrorismo. Quello che ancora non si riusciti a fare, è ricostruire il palazzo. “Solo ad agosto scorso”, spiega la vicesindaca del primo cittadino socialista Katy Bontinck, “abbiamo potuto far partire la demolizione perché c’è stata una lunga battaglia con i co-proprietari. L’amministrazione comunale ha dovuto comprare parte dell’edificio e ci sono voluti anni”.
L’edificio è rimasto così, sospeso nel tempo: un rudere con i segni neri che sembrano di una fiammata. “Quella notte nessuno l’ha dimenticata. Le esplosioni hanno fatto tremare le mura di tutte le case vicine. Anche la mia”, dice Bontinck. “Vinta la battaglia giudiziaria, ricostruiremo tutto”. Dieci anni dopo, c’è una promessa. Intanto restano le macerie.