Alcuni esperti parlano di una svolta storica: per la Cina la crescita economica non è più la priorità. Al primo posto viene la sicurezza. Quindi l’autosufficienza. I numeri della crescita non vanno più inseguiti in modo ossessivo, come era stato vero per gran parte della storia di questo regime comunista. Al punto che i numeri stessi venivano falsificati, manipolati, per il feticismo degli obiettivi quantitativi da raggiungere. Ora si cambia. Ma quando è successo?

Ci eravamo distratti, perché troppo focalizzati sulla tensione Usa-Cina, sul tema dei dazi e altre guerre commerciali, sulle ricadute della tregua precaria raggiunta fra Donald Trump e Xi Jinping. Ci eravamo distratti, o forse no: è un difetto nostro quello di osservare la Cina dall’angolatura troppo riduttiva del suo rapporto visibile e ufficiale con l’Occidente, in particolare con l’America. Ma se c’è una cosa che Cina e America hanno proprio in comune, è la vasta dimensione (geografica, demografica, economica), quindi la percezione di sé come di un universo auto-referenziale, dominato da un centro di gravità interno, potenzialmente autosufficiente.



















































Tuttavia è chiaro che la nuova strategia economica nasce anche dal clima sempre più conflittuale verso gli Stati Uniti. L’obiettivo del nuovo corso è quello di rendere, se possibile, ancora più autonoma la Cina, facendone una nazione capace di isolarsi dalle tempeste globali, di contare anzitutto sulle proprie risorse.

La novità sembra aver preso sostanza e visibilità soprattutto con l’ultimo Plenum del Partito comunista, che si era tenuto a ridosso del vertice Trump-Xi e quindi era passato in secondo piano rispetto al summit di Seul. Attira l’attenzione sulla portata storica di quell’assise comunista un’autorevole studiosa cinese, la professoressa Yu Jie, attualmente a capo di un progetto di ricerca per il think tank britannico Chatham House. Eccovi una sintesi della sua analisi.

Nel linguaggio del Partito comunista cinese ogni parola pesa. Il comunicato diffuso al termine del Quarto Plenum — la riunione politica più importante dell’anno a Pechino — segna una svolta che non riguarda solo l’economia, ma l’intera visione strategica della Cina.

Il documento introduce i principi del prossimo Quindicesimo Piano Quinquennale (2026–2030), e per la prima volta in quarant’anni rompe con la tradizione inaugurata da Deng Xiaoping. Dall’epoca delle riforme e dell’apertura, tutti i piani di sviluppo avevano avuto un obiettivo prioritario: far crescere il Pil, misurare la potenza nazionale in base alla velocità dell’espansione economica.

Oggi Xi Jinping cambia le regole del gioco. Il nuovo piano mette la sicurezza economica sullo stesso piano della prosperità. La leadership riconosce che inseguire la crescita nominale non basta più: la Cina vuole essere forte, non solo ricca. È la fine della corsa al Pil a due cifre, la fine del modello che aveva trasformato un grande paese agricolo in una superpotenza industriale. La nuova parola d’ordine è «autonomia tecnologica». Pechino si prepara a costruire un’economia capace di resistere a qualunque choc, «anche alle tempeste più pericolose», come recita il comunicato ufficiale. 

Dietro questa formula si nasconde una realtà precisa: la vulnerabilità tecnologica della Cina. Il blocco americano sulle esportazioni di semiconduttori avanzati, le sanzioni contro Huawei a cui hanno partecipato anche diversi governi europei, hanno mostrato i limiti di un modello di crescita basato su tecnologie importate. Xi ha tratto la lezione: la prossima fase dello sviluppo cinese sarà dedicata a ridurre la dipendenza dai fornitori esteri e a costruire una catena del valore interamente nazionale.

Il nuovo Piano Quinquennale è dunque un piano di resilienza. Non punta più a fare della Cina la fabbrica del mondo, ma il laboratorio tecnologico del futuro. L’obiettivo è che Pechino non solo produca tecnologia, ma detti gli standard globali.

In questa strategia l’innovazione significa manifattura avanzata, robotica, energia pulita, microchip, intelligenza artificiale, biotecnologie. Tutti campi in cui il Partito promette di concentrare capitali, credito agevolato, ricerca pubblica e protezione politica.

Il centro del potere resta nel Partito e nel suo vertice supremo a Pechino. Dopo anni di libertà relativa concessa alle amministrazioni locali e ai conglomerati privati, la direzione torna saldamente in cima alla piramide gerarchica e nella capitale. Il principio è quello della «mobilitazione nazionale integrale», lo stesso che guida la strategia militare e diplomatica cinese: l’intero Paese deve agire come un unico organismo, dove il Partito coordina, pianifica e finanzia.

È un cambiamento che deluderà gli economisti occidentali. Da tempo molti di loro auspicano un rilancio della domanda interna, cioè più consumi delle famiglie, come motore della crescita. Invece Pechino non sembra intenzionata a stimolare la spesa privata: la priorità non è «consumare di più», ma «produrre meglio». Il messaggio è chiaro: la Cina non tornerà al vecchio modello trainato da immobili, finanza e spesa pubblica locale.

In parallelo, il Piano intende istituzionalizzare l’esperienza delle guerre commerciali. Negli ultimi anni la Cina ha usato con abilità le proprie leve: il controllo sulle terre rare, la forza della sua manifattura, l’integrazione verticale delle sue catene produttive. Tutti strumenti che Pechino considera ormai armi geopolitiche. Il nuovo Piano trasforma queste pratiche in una strategia permanente per gestire la «competizione tra grandi potenze» con gli Stati Uniti.

Questa scelta porta con sé rischi e contraddizioni. Sul fronte esterno, l’industrializzazione spinta rischia di aumentare le tensioni con l’Occidente, ma anche con i Paesi emergenti che fino a ieri imitavano la Cina e ora vogliono emanciparsi da essa. Indonesia, Brasile o Vietnam non accetteranno più di restare subfornitori nel sistema industriale cinese: vogliono costruire la propria autonomia, spesso in competizione diretta con Pechino.

Sul fronte interno, la spinta all’autosufficienza tecnologica può creare una crescita senza occupazione, o comunque con meno posti di lavoro nei settori tradizionali. I nuovi comparti high-tech richiedono meno manodopera, più competenze, più capitale umano qualificato. Per milioni di giovani cinesi, già penalizzati da un mercato immobiliare proibitivo e dal costo dell’istruzione, il rischio è restare esclusi.

Il Partito sa di camminare su una linea sottile. Per questo nel comunicato torna l’espressione «prosperità comune», lanciata da Xi nel 2021: un impegno a ridurre le disuguaglianze e a rafforzare il Welfare. È il modo in cui il regime riconosce l’esistenza di un problema sociale crescente e promette di tenerlo sotto controllo. Il compito è arduo. Come conciliare la sicurezza economica del Paese con la prosperità dei cittadini? Come mantenere la coesione sociale in un sistema dove il Partito controlla tutto, ma le opportunità si concentrano in pochi settori ipercompetitivi?

Entro il 2035, la Cina vuole raggiungere un reddito pro capite da Paese sviluppato di fascia media. Il nuovo Piano dovrà essere il trampolino verso quella meta. Ma se l’economia rallenta troppo, se le disuguaglianze crescono, la promessa di Xi di un «rinascimento nazionale» potrebbe trasformarsi in un boomerang politico.

L’esperta di Chatham House osserva che il Partito comunista è sopravvissuto a un secolo di crisi gestendo abilmente le sue contraddizioni. Tuttavia, quella che si apre ora è forse la più difficile: tra sicurezza e crescita, tra controllo e creatività, tra potenza e consenso. Nel lungo periodo, la capacità di Pechino di bilanciare questi elementi determinerà non solo il futuro del suo modello economico, ma anche la durata del suo modello politico. Se il nuovo Piano riuscirà a rafforzare la stabilità senza soffocare la vitalità della società, la Cina potrà consolidare il suo ruolo di superpotenza autonoma. Se invece la sicurezza verrà perseguita a scapito della prosperità, le crepe potrebbero aprirsi all’interno, non all’esterno.

Per il resto del mondo, questo Quindicesimo Piano Quinquennale è una dichiarazione geopolitica. La Cina sta dicendo di voler competere a lungo termine con gli Stati Uniti non attraverso il commercio o la finanza, ma attraverso il controllo delle tecnologie del futuro. La crescita a ogni costo è finita. Inizia l’era della sicurezza come nuovo nome dello sviluppo.

13 novembre 2025, 12:07 – modifica il 13 novembre 2025 | 12:07