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«Lo scenario potrebbe essere quello di una sindrome di Medea portata all’estremo: una donna con problematiche psichiatriche note, che aveva perso l’affidamento del bambino e che ha voluto vendicarsi dell’ex partner uccidendo il figlio. Mi sorprende la sottovalutazione da parte dei servizi sociali che erano a conoscenza della situazione». È questa l’analisi della criminologa Roberta Bruzzone che al telefono con Il Messaggero analizza il caso della donna di 55 anni che questa mattina ha ucciso il figlio di 9 anni tagliandogli la gola nella sua casa di Muggia (Trieste). Il piccolo era affidato al padre ma non era rientrato ieri sera alle 21 dopo la visita alla mamma. La polizia e i vigili del fuoco sono intervenuti nell’abitazione in via Marconi intorno alle 22 e hanno trovato il bambino esanime con ferite da arma da taglio alla gola, mentre la madre era in stato di choc.
APPROFONDIMENTI
Bruzzone, colpisce la modalità così cruenta dell’omicidio. Come se la spiega?
«Di solito nei casi di madri che uccidono i figli più la modalità è cruenta e più dietro l’azione c’è un movente vendicativo.
La madre psicotica, ad esempio con una psicosi paranoide di matrice religiosa e che è convinta di salvare il figlio uccidendolo, solitamente sceglie solitamente modalità meno cruente come l’annegamento o il soffocamento con un mezzo morbido. Quando ad agire è una donna invece motivata dal desiderio di vendetta, cioè che ritiene di aver subito un torto perché il bambino è stato allontanato da lei, l’azione è molto più violenta».

In questo caso quindi cosa è scattato nella mente di questa donna?
«Evidentemente c’erano dei problemi psichiatrici e l’affidamento del bambino al padre l’ha messa davanti in maniera manifesta alla sua inadeguatezza, cosa che lei non ha tollerato. A quel punto, nella sua mente è scattato il deisderio di vendetta: se non poteva avere il bambino lei non doveva più averlo nessuno. Potrebbe essere questo lo scenario che si è innescato progressivamente nella sua mente»..
La famiglia era seguita dai servizi sociali, ma non è bastato a proteggere il piccolo. Cosa non ha funzionato?
«Mi fa rabbrividire che la situazione fosse già seguita dai servizi sociali, quindi c’erano già delle criticità manifeste. Il bambino era stato affidato al padre, segno che la madre aveva problematiche piuttosto serie di natura psichiatrica perché per bambini di quell’età si arriva a questa decisione quando la genitorialità materna è completamente compromessa. Quello che non si comprende è perché questo bambino non avesse la possibilità di vedere la madre in maniera protetta, posto che c’era una criticità importante».
Vicini e conoscenti hanno detto che la situazione non appariva così grave. La donna ha simulato per nascondere i suoi propositi?
«Il fatto che non sembrasse così grave, evidentemente, non vuol dire che non lo fosse. Anzi, l’escalation così brutale ci dice che probabilmente questa persona è stata in grado di dissimulare la gravità del proprio proposito, la pericolosità della sua condizione. Resta il fatto che se c’è un genitore con problematiche psichiatriche di questa portata, normalmente si evita che possa avere contatti diretti con minori in assenza di altre figure di riferimento».
Madri che uccidono i figli, i casi ci sono eppure spesso si sottovalutano campanelli di allarme. Forse perché ci appare impensabile un crimine di questo tipo?
«La figura materna è vista, anche dallo stereotipo di genere, come incapace di nuocere alla propria prole, anzi pronta a sacrificarsi e annullarsi per garantirne il sostentamento e nutrimento. Si tende a pensare che la maternità o la paternità siano una sorta di freno a mano tirato insomma. E questi stereotipi a volte sono proprio la causa di una sottovalutazione della gravità dei casi. In una mente distorta, disfunzionale o gravata da una patologia mentale, l’angoscia può salire e l’azione violenta può riguardare chiunque, figli compresi».
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