TREVISO – Che anni quegli anni. A cavallo fra gli ’80 e i ’90, quasi due decenni di velocità e tensione, intuizioni formidabili e dolorosi imprevisti, motori in pista e moda in vetrina. Cosa poteva poi esserci di colorato nel bianco-e-nero della bandiera a scacchi? In effetti nulla prima di “Benetton Formula”, la scuderia partita dalla provincia veneta per andare a rivoluzionare la Formula 1 in giro per il mondo. «L’idea era quella di portare un po’ del nostro spirito, un po’ garibaldino, un po’ più coraggioso, un po’ più estroverso», confida Alessandro Benetton nel documentario che celebra l’epopea nel trentennale delle storiche vittorie mondiali, presentato in anteprima ieri a Roma e proiettato stasera alle porte di Treviso, dove tutto è cominciato. 

APPROFONDIMENTI













L’appuntamento è alle 20 allo Space Cinema di Silea, con replica domani e dopodomani, per i 93 minuti ideati dall’emergente casa di produzione Slim Dogs in collaborazione con Sky, che con Now li renderà disponibili dal 28 novembre. Scritto da Giacomo Pucci e Giulia Soi, per la regìa di Matteo Bruno, il racconto per immagini (in gran parte inedite) e voci (senza troppi peli sulla lingua) dà una rappresentazione plastica di ciò che la giornalista Tina Brown definisce «versione italiana del sogno americano». Una storia di duro lavoro e insperate vittorie, dunque, ma con più «glamour e rock’n’roll», genio e sregolatezza che hanno piacevolmente sconvolto il paludato circus.

«Bisognava creare un po’ di confusione», ammette Luciano Benetton, spiegando il proposito iniziale nel 1983 di una sponsorizzazione nell’automobilismo, sport globale in un’epoca in cui il gruppo di Ponzano Veneto tendeva a sostenere solo le squadre di pallacanestro, rugby e pallavolo del territorio locale. L’impatto fu dirompente, per la capacità di far girare il proprio marchio non solo verniciando di verde aziendale le monoposto Tyrrell, ma anche cambiando (e vendendo) ad ogni Gran Premio le divise dei meccanici, vestendoli finanche di rosa. 

TRIONFO

Tuttavia era chiaro che, per sfondare davvero, bisognava mettere il marchio al volante e puntare ad arrivare primi, perché «del secondo si parla pochissimo e del terzo niente», osserva con serafico disincanto il signor Luciano. Fu così che «un’azienda di magliette», come veniva sprezzantemente bollata (e mal accentata: «Bènetton»), rilevò la scuderia Toleman in crisi per 2 miliardi di lire. L’azzardo venne sancito in piazza dei Signori: «Ci fu una riunione all’Harry’s Dolci di Treviso», ricorda con la consueta sensibilità gastronomica Davide Paolini, il responsabile della comunicazione che nel 1985 si ritrovò amministratore delegato in un mondo tutto da scoprire.

Tutte da ascoltare le testimonianze del pilota Gerhard Berger su quegli inizi pionieristici negli autodromi e del progettista Rory Byrne sull’estro nel differenziare la mescola per gli pneumatici, tanto da aggiudicarsi il primo trionfo in Messico nel 1986 beffando un certo Ayrton Senna. A proposito di ruote: al confine con la leggenda l’idea, poco prima della gara negli Stati Uniti, di ridipingere le gomme con le bombolette di colori diversi, così da guadagnarsi non il podio ma almeno la prima pagina del “New York Times”. «Questo è un Carnevale, va avanti una settimana e poi comincia la Quaresima», mal profetizzarono i critici, come ricorda il cronista Pino Allievi, rievocando il promettente ingaggio di Alessandro Nannini.

IDENTITÀ INDIPENDENTE

Decisivo il coinvolgimento dell’altro “Sandro”, il secondogenito del fondatore, a quel tempo impegnato Oltreoceano. «Cercavo di trovare una mia identità indipendente rispetto a tutto quello che mi circondava», sottolinea Alessandro Benetton, che quasi per scherzo accettò l’offerta del padre Luciano di «guardare i numeri» dell’impresa basata in Gran Bretagna. In visita all’officina di Witney, il giovane venne accolto dal team manager Peter Collins, scoprendo da una targhetta di essere il nuovo presidente: «That is your office mister Chairman». Una delle molte sorprese, come l’arrivo di Flavio Briatore, «stivali da cowboy e sigaretta in bocca», in qualità di direttore commerciale.

Un marziano che non sapeva «distinguere il dietro di un’auto dal davanti», ma aveva fiuto per gli affari («Noi parlavamo già di lifestyle e non solo di motorsport», rivendica con fierezza), oltre che una naturale propensione al decisionismo, tanto che a distanza di decenni davanti alle telecamere non fa nulla per nascondere l’astio (peraltro ricambiato) per Collins e Paolini, allora silurati come in una puntata di “The apprentice”… «Il resto è storia», come dice lo storico patron del circus Bernie Ecclestone, introducendo l’ascesa all’olimpo della F1 con Michael Schumacher, fino alla doppietta mondiale fra 1994 e 1995. C’è rispettoso spazio per il dramma di Nannini e per la tragedia di Senna, ma i titoli di coda scorrono sulle immagini dei successi, senza immalinconirsi nel declino finale della scuderia nel 2001. Del resto un’ora e mezza riesce a svelare già tutto. Il segreto di Benetton Formula è stato, e non è un gioco di parole, la “formula Benetton”, applicata ai motori tanto quanto ai maglioncini. Creatività, intraprendenza, orgoglio. Una chimica esplosiva e, probabilmente, irripetibile.