Perché la situazione sul fronte ucraino è così drammatica? Dietro l’urgenza di Putin, giunto al quarto inverno di un’offensiva che doveva durare… quindici giorni, c’è un imperativo geopolitico: bloccare i preparativi per l’adesione di Kiev all’Unione europea.

Benché quell’adesione non sia comparabile ad un eventuale ingresso nella Nato (che non è in agenda), tuttavia per Putin rappresenterebbe una perdita incancellabile, un fiasco totale. Se riesce a fermare quel processo, l’autocrate russo ha poi in mente un piano in più fasi per soggiogare gradualmente Kiev, infine reintegrare l’Ucraina nella sfera d’influenza russa. 



















































Nel frattempo deve convincere tutti – la popolazione ucraina, gli europei, in America sia Trump che il Congresso e il Pentagono, infine il suo stesso entourage moscovita – che il tempo è dalla sua parte. Cosa tutt’altro che certa. 

Prendo questo scenario da un’acuta analisi di un esperto militare britannico, Jack Watling, ricercatore al Royal United Services Institute di Londra. L’ha pubblicata sulla rivista americana Foreign Affairs con il titolo “L’inverno più difficile per l’Ucraina”. Eccovi la mia sintesi.

Mentre la guerra in Ucraina entra nel suo quarto inverno, paradossalmente il tema dominante nelle capitali occidentali è il «dopo»: scenari di cessate il fuoco, piani di ricostruzione, garanzie di sicurezza, promesse di ingresso nell’Unione Europea e nella Nato. Sul campo, la realtà si muove in direzione opposta. La Russia non sta rallentando, sta accelerando. Mentre i governi discutono di negoziati, Putin cerca di imporre con le armi una soluzione che renda quei negoziati inutili: la ratifica di una sconfitta ucraina.

Per capire dove stiamo andando, vale la pena di partire da un luogo che quasi nessuno in Europa saprebbe collocare su una mappa: Pokrovsk, nodo logistico nel Donbass. Mosca progettava di occuparla entro novembre 2024. È in ritardo di un anno, ma ora è sul punto di farcela. I russi avanzano tra edifici sventrati, macerie ghiacciate, palazzi vuoti che diventano postazioni di tiro. I droni di Mosca tagliano le vie di rifornimento, le truppe ucraine difendono casa per casa, avendo inflitto nei mesi scorsi perdite enormi: oltre 20 mila soldati russi uccisi al mese, secondo le stime più accreditate. Eppure la marea, lentamente, sale.

Pokrovsk non è un’eccezione, è un simbolo. A nord e a sud, le linee ucraine vengono «stirate», piegate, trasformate in sacche. I russi sono alle porte di Kostyantynivka. Usano droni guidati a filo e bombe plananti non solo contro obiettivi militari ma per spopolare i centri abitati man mano che entrano nel raggio d’azione: lo hanno fatto a Kherson, ora replicano la stessa strategia su Kramatorsk e possono minacciare il cuore industriale di Zaporizhzhia. Se il Donbass cade, il prossimo obiettivo logico è Kharkiv, la seconda città del Paese.

Mentre tutto questo accade, la conversazione globale si concentra sulla parola magica: «negoziato». È una parola rassicurante, che parla alla nostra stanchezza, alla nostra inquietudine di europei spettatori di una guerra lunga, costosa, incomprensibile per chi non conosce la storia di questa regione. Ma a Mosca la parola «negoziato» significa qualcos’altro: guadagnare tempo, cambiare i fatti sul terreno, logorare la resistenza ucraina, spaccare l’unità occidentale.

In questi mesi Kiev non ha chiuso la porta al dialogo. Al contrario, la leadership ucraina ha mandato più volte segnali di disponibilità. È Mosca che non si è mossa di un millimetro dalle sue pretese massimaliste. Nella versione russa, qualsiasi sospensione dei combattimenti dovrebbe avvenire a spese della sovranità ucraina, sancendo come irreversibile la perdita di territori e il diritto di Mosca di intervenire di nuovo. Finché l’aggressore è determinato a proseguire, il Paese aggredito non ha scelta: può soltanto continuare a combattere.

C’è poi un elemento che spesso in Occidente non vogliamo guardare in faccia: il comportamento della comunità internazionale, in particolare degli alleati, ha incoraggiato Putin a proseguire. Il calo dell’assistenza militare e tecnica statunitense – segnali di stanchezza del Congresso, polemiche sulla durata del sostegno – hanno alimentato nel Cremlino la speranza di poter esaurire le riserve ucraine di munizioni e di energia. 

L’Europa, dal canto suo, ha parlato sempre più di quale architettura di sicurezza offrirà all’Ucraina «dopo la guerra», con una «coalizione dei volenterosi» pronta a mettere truppe sul terreno una volta firmato un cessate il fuoco. Il risultato, dal punto di vista di Mosca, è semplice: prolungare la guerra diventa il modo migliore per impedire proprio quell’integrazione euro-atlantica che l’Ucraina cerca dal 2013.

Qui tocchiamo il punto centrale. La Russia non combatte solo per un corridoio di terra verso la Crimea, per il controllo del Mar Nero, per qualche oblast in più o in meno. Combatte per impedire che l’Ucraina diventi definitivamente parte dell’Occidente, della sua economia, dei suoi sistemi di sicurezza. L’obiettivo strategico di Putin non è solo territoriale, è geopolitico: riportare Kiev nella propria orbita, svuotarne la sovranità dall’interno.

Ecco perché il Cremlino guarda con ostilità non solo alla Nato ma anche all’Unione Europea. La Russia non vuole che l’Ucraina si integri con l’Europa e con le sue strutture di sicurezza: dopotutto, l’invasione del 2022 ha le sue origini nel 2013, quando Mosca fece pressioni sul presidente ucraino di allora, Viktor Yanukovych, affinché non firmasse l’accordo di associazione con l’Unione Europea. Se un cessate il fuoco rende imminente questa integrazione, come suggeriscono i leader europei della coalizione dei volenterosi, allora la Russia ha un fortissimo incentivo a evitare un cessate il fuoco.

Se accettiamo questo punto di partenza, diventa più chiaro anche il piano di lungo periodo che Putin insegue

Il suo obiettivo strategico è di soggiogare l’Ucraina in tre fasi. Eccolo nei dettagli, secondo Watling: «Primo, Mosca mira a occupare o distruggere abbastanza territorio ucraino da garantire che ciò che resta del Paese sia economicamente sostenibile solo con l’acquiescenza della Russia. I pianificatori russi ritengono che ciò potrebbe essere ottenuto se la Russia mantenesse i quattro oblast che ha già annesso e aggiungesse Kharkiv, Mykolaiv e Odessa, il che taglierebbe di fatto l’Ucraina fuori dal Mar Nero. In queste condizioni, il Cremlino cercherebbe un cessate il fuoco, nella convinzione di poter poi condurre una seconda fase, in cui sfruttare leva economica e guerra politica, sostenute dalla minaccia di una nuova invasione, per esercitare controllo su Kiev. Nella fase finale, la Russia assorbirebbe l’Ucraina nella propria orbita in modo analogo alla Bielorussia».

È un programma che ricorda altri capitoli della storia europea: la riduzione territoriale e l’asfissia economica come preludio per soggiogare una nazione e ridurla in uno stato di vassallaggio, fino all’assorbimento finale. C’è una logica fredda, quasi amministrativa, dietro la ferocia delle battaglie di Pokrovsk o di Kherson. Mosca sa di essere ancora lontana dal completare la prima fase, ma conta sul logoramento progressivo delle forze ucraine: meno fanteria addestrata, meno capacità di tenere una linea difensiva continua, più vulnerabilità di fronte a un nemico che, per ora, resta all’offensiva. 

Questa strategia ha però anche i suoi limiti. La Russia ha finora sostenuto la guerra con un massiccio ricorso ai volontari, comprati con bonus e indennizzi promessi alle famiglie. Nel 2024 sarebbero stati reclutati circa 420 mila uomini, più di 300 mila nel 2025. Ma il bacino di chi è disposto a rischiare la vita per un premio in denaro non è infinito. Le cifre del reclutamento sono già in calo, e le autorità hanno iniziato a usare metodi più coercitivi. A un certo punto il Cremlino dovrà cambiare modo di combattere – riducendo l’uso di ondate di fanteria sacrificate – oppure inventare un altro modello di mobilitazione. 

C’è poi il limite economico. Finché la Russia riesce a vendere petrolio, gas e materie prime, ha la liquidità necessaria per comprare armamenti e pagare gli stipendi dei soldati. Ma il calo dei prezzi del petrolio nel 2025 ha cominciato a pesare sulle riserve. Gli attacchi ucraini a lungo raggio contro le raffinerie hanno già colpito la capacità di raffinazione interna e la disponibilità di carburante. Se a questo si aggiungesse una vera stretta occidentale sulla cosiddetta «flotta ombra» – la rete di petroliere vetuste che trasportano il greggio russo verso India e Cina eludendo le sanzioni – la Russia potrebbe trovarsi nel 2026 davanti a un problema di cassa molto serio.

Fino ad oggi le misure europee e americane contro questa flotta sono state timide, più simboliche che sostanziali. Eppure è qui che l’Occidente avrebbe un’arma potentissima, forse più efficace di tante dichiarazioni altisonanti sulla «fermezza» a lungo termine. Bloccare davvero, in modo coordinato, il passaggio delle petroliere della flotta ombra attraverso lo Stretto di Danimarca significherebbe colpire il cuore del sistema di finanziamento della guerra, senza necessariamente provocare un’esplosione dei prezzi, perché altri produttori OPEC sarebbero pronti a raccogliere la domanda. (E qui può risultare prezioso l’asse Usa-Arabia, il rapporto stretto fra Donald Trump e Mohammed Bin Salman).

In parallelo, l’Ucraina sta cercando di migliorare l’efficacia della propria campagna di attacchi profondi. Finora la difesa aerea russa ha abbattuto fino al 95 per cento dei droni, e non tutti quelli che arrivano a destinazione producono danni significativi. Ma Kiev sta accumulando missili da crociera di progettazione nazionale, capaci di colpire una gamma più ampia di obiettivi. Se questi sistemi verranno utilizzati contro infrastrutture di esportazione di petrolio e gas, la pressione su Mosca crescerà.

Sul fronte ucraino, il tallone d’Achille non è tanto la mancanza di uomini in età militare, quanto la capacità di trasformarli in unità combattenti efficaci. L’addestramento effettuato finora fuori dal Paese ha dato risultati deludenti, perché le unità non hanno potuto saldarsi davvero con i loro comandi e con l’equipaggiamento che poi avrebbero usato al fronte. Una delle proposte che circolano nelle capitali europee è il passaggio a un addestramento «in teatro»: istruttori europei che operano dentro l’Ucraina, coordinati dai comandi ucraini, su equipaggiamenti che poi verranno effettivamente impiegati. È una soluzione che comporta rischi – gli istruttori diventerebbero bersagli perfetti per Mosca – ma finora i russi hanno avuto scarso successo nel colpire questo tipo di obiettivi, e il guadagno in termini di qualità delle forze ucraine potrebbe essere decisivo.

Infine c’è la questione dell’inverno che arriva. La Russia sta producendo più missili che mai, la rete elettrica ucraina è già oggi incapace di alimentare in modo continuo il Paese: anche nel centro di Kiev la corrente manca per ore ogni giorno. Il riscaldamento funziona, ma le temperature scendono. Mosca punta, oltre che sul logoramento militare, su uno stress estremo della popolazione civile: blackout prolungati, città di prima linea svuotate, fuga di famiglie dalle aree più esposte. 

Se questa strategia riuscisse, la Russia potrebbe trovarsi in posizione di costringere l’Ucraina a una resa di fatto nel 2026.

L’analisi più realistica suggerisce un’altra via: se l’Ucraina riuscirà a tenere le linee difensive ancora un anno, e se in quello stesso arco di tempo l’Occidente saprà trasformare le sanzioni da rito simbolico in vera pressione economica – sulla flotta ombra, sulle esportazioni energetiche, sulle capacità industriali – allora il Cremlino comincerà a intravedere il rischio di una crisi di lungo periodo in cui i costi superano i benefici attesi.

Il cessate il fuoco arriverà quando la Russia sarà convinta di essere su una traiettoria insostenibile. Fino ad allora, il compito degli alleati è duplice: dare all’Ucraina i mezzi per resistere, e convincere Putin che il tempo non è più dalla sua parte.

14 novembre 2025, 12:39 – modifica il 14 novembre 2025 | 12:40