Chi sono stati i suoi modelli?
«C’era il grande cinema che avevo scoperto al Centro sperimentale: il cinema muto, quello espressionista. Vedere capolavori come Il gabinetto del dottor Caligari, Nosferatu, Il diario di una donna perduta o La passione di Giovanna d’Arco è stato decisivo. Poi c’era il cinema a me più contemporaneo, la Nouvelle Vague, che non mi ha sconvolto, ma mi ha colpito: Fino all’ultimo respiro, Hiroshima, mon amour, I 400 colpi. In Italia c’erano i grandi maestri, in piena vitalità: Fellini, Antonioni, Visconti, De Sica».
Nei suoi discorsi torna spesso la parola «vitalità».
«Non mi piace la nostalgia. La prima volta in cui tornai a Bobbio – del tutto casualmente – non avevo alcuna intenzione di farlo. Ma lì ho visto, in me stesso e nel rapporto con i miei familiari – non dimentichiamo che da I pugni in tasca in poi ho raccontato madri nel burrone, fratelli affogati, tutto nato da un atteggiamento di rifiuto –, che era subentrato qualcosa di diverso: non una riconciliazione, ma il bisogno di capire più profondamente, con una sensibilità nuova, la mia storia e la mia famiglia. Non c’è mai stato in me il compianto, né la dimensione patetica. E nei miei lavori c’è sempre stato un intreccio tra vita privata e film: quella cosa che, banalmente, si dice “credere a quello che si fa”. Non puoi separarla dalla vita. E oggi, tramontata l’ideologia, è venuto meno anche quel modo moralistico di vivere “in funzione di qualcosa”: si vive più direttamente, con un certo realismo, senza pensare di essere eterni».
Un libro che l’ha segnata?
«Ho sempre avuto un’ammirazione sconfinata per Giovanni Pascoli. È vero che D’Annunzio lo definiva un “piagnone”, ma Pascoli era un poeta geniale, pur avendo rinunciato a una certa vita. Gigantesco: si è battuto per l’emancipazione delle sorelle e per un’idea civile che poi, negli ultimi anni, è diventata anche piuttosto reazionaria. Ma non è quello che ci viene raccontato nei libri di scuola. Le poesie le puoi leggere in tanti modi. Con la maturità si riscoprono molte cose che da giovani erano state imposte. Pensi ai Promessi sposi: durante il covid l’ho riletto tutto. Una meraviglia».
C’è stato un errore che le ha insegnato più di altri?
«Un errore? Ce ne sono molti. E ci sono errori “bravi”, come li chiamo io, ed errori meno bravi. Ricordo che molti anni fa, mentre stavo girando un film, mi accorsi che l’attrice che avevo scelto era sbagliata per quel ruolo. Quando fai un errore – perché può capitare sempre – di solito hai due atteggiamenti: o dici “abbiamo sbagliato, ma andiamo avanti lo stesso”, oppure ti fermi. Ecco, in quel caso mi impuntai: pagai il contratto della ragazza e prendemmo un’altra attrice. Il produttore ancora oggi mi rimprovera di avergli fatto perdere tanti soldi. Gli errori sono così: insegnano. E certi sono talmente grandi che non puoi ripararli. Ma dove è possibile, bisogna reagire. Certo, bisogna essere anche realisti: ci sono situazioni talmente impossibili che non puoi, come Don Chisciotte, metterti a combattere contro i mulini a vento. Ma quando si può, bisogna fermarsi, correggere. E ascoltare molto. Io so di essere stato fortunato».