Jonathan Peled è l’ambasciatore israeliano in Italia e San Marino da un anno. Ci accoglie nella sede nel cuore dei Parioli mentre il suo Paese è impegnato a gestire una tregua fragile a Gaza, le fiammate al confine con il Libano e le violenze dei propri coloni in Cisgiordania.

Ambasciatore, c’è la possibilità di arrivare alla fase 2 del piano per Gaza?

«Israele ha completato la fase 1, ritirandosi dietro la linea gialla, fermando il fuoco, consentendo il passaggio degli aiuti umanitari. Hamas avrebbe dovuto rilasciare tutti gli ostaggi vivi o morti in 72 ore, sfortunatamente stiamo ancora aspettando le ultime salme. Il piano procede per fasi: non si passa alla successiva finché non viene completata la precedente».

Chi disarmerà Hamas?
«Direi gli Stati Uniti. Il presidente Trump sta mettendo sul tavolo tutta la sua capacità di pressione. Ma se Hamas non accetta di abbandonare le armi volontariamente, se sarà di nuovo necessario l’uso della forza, di questo può occuparsi solo Israele. Con l’appoggio di Trump e della coalizione».

La tregua è stata firmata il 9 ottobre. In un mese è cambiato il clima intorno a Israele?

«Purtroppo no. I dimostranti che dicevano di sostenere Gaza hanno rivelato il loro vero volto: non erano pro-palestinesi, erano anti-israeliani. E’ come se la notizia del cessate il fuoco non fosse arrivata in Italia, o in Europa. I gruppi anti-establishment, i pro-Pal con infiltrazioni islamiste, non sono allineati ai fatti, li considerano irrilevanti. Le manifestazioni continuano ad essere violente».

E nei rapporti tra governi è cambiato qualcosa?

«Non abbiamo un problema con il governo italiano, che dopo il 7 ottobre ci ha sempre supportato. La nostra sfida riguarda l’opinione pubblica e i media. Ha a che fare con la disinformazione nelle scuole e nelle università. Persino con il boicottaggio delle nostre squadre di basket e di calcio».

Forse, per riavvicinarsi alle opinioni pubbliche occidentali, Israele dovrà fare i conti con la ritorsione militare a Gaza dopo gli orrori del 7 ottobre. Una ritorsione che non solo le piazze, ma anche i leader storicamente a voi vicini, considerano sproporzionata.

«Avremo un’indagine nazionale, pubblica, sul fallimento del 7 ottobre, e anche sulla risposta militare. Valuteremo se sia stata corretta e giusta. Ma questo è un dibattito interno, non cambierà i fatti. Molti governi occidentali, anche quelli critici, capiscono che Israele sta difendendo l’Occidente dal terrorismo. La scorsa settimana è stata scoperta una cellula di Hamas a Berlino, sappiamo che ve ne sono in altri Paesi. L’Europa deve svegliarsi e realizzare che quello che ha dovuto vivere Israele, un giorno potrebbe essere affrontato dai suoi cittadini».

Saranno ripristinati i collegamenti aerei tra Italia e Israele?

«Ita li riprenderà dal primo gennaio, questo è un problema risolto. Ma su di noi pende il travel advisory, l’avviso ai viaggiatori che segnala Israele come un Paese a rischio. Vogliamo che questo allarme rientri, Israele è un Paese tranquillo, sicuro. Le delegazioni istituzionali ci raggiungono, perché non possono farlo i cittadini comuni?»

Forse perché Netanyahu ha dichiarato che la guerra non è ancora finita.

«Penso che Netanyahu volesse dire che la guerra contro i nostri nemici non è conclusa, ma dentro Israele non c’è guerra».

Quanto tempo servirà perché le relazioni commerciali con l’Italia si normalizzino?

«Con il cessate il fuoco, se le limitazioni ai viaggi verranno rimosse, saremo in grado di rilanciare il commercio, il turismo, la tecnologia. Abbiamo molto da offrire all’Italia e viceversa. E’ in piedi una collaborazione G2G (Government to Government, ndr) intensa, intratteniamo forme di cooperazione che devono essere scongelate nell’interesse di entrambe le parti. In fondo, anche durante la guerra, gli israeliani hanno continuato a venire in Italia, un milione di turisti ogni anno».

L’impressione è che i rapporti con i Paesi alleati si siano raffreddati.

«Gli amici restano amici anche nel tempi difficili, l’Italia e gli Usa ne sono un esempio. Sfortunatamente nel mondo le opinioni pubbliche non sono dalla nostra parte, dobbiamo riconquistare le loro menti e i loro cuori. Israele è stata ammirata come una democrazia vibrante, una “startup nation”, il Paese che ha fatto fiorire il deserto. Bisogna ricordarlo al mondo: la nostra dimensione è piccola, ma il nostro contributo nei campi dell’energia, della scienza, della tecnologia è enorme».

Nonostante questo, alcuni atenei italiani hanno interrotto i rapporti.

«Vorrei che fosse chiaro un concetto: se l’università di una qualsivoglia città italiana collabora con la Hebrew University, non è un favore a Israele ma una cooperazione utile a entrambe. La rottura di questa cooperazione è un danno autoinflitto. Lo stesso vale per la Puglia: rifiutare la collaborazione con Israele significa rinunciare alle soluzioni per i problemi idrici».

I casi di antisemitismo sono aumentati in Italia. Per gli ebrei non siamo più un Paese sicuro?

«Il governo italiano sta lavorando seriamente. Bisogna tuttavia investire maggiormente sull’istruzione e sull’applicazione della legge. L’antisemitismo è una forma estrema di razzismo. Se non si protegge la comunità ebraica, domani non si sentiranno sicure la comunità gay, e poi le altre minoranze. L’antisemitismo non è un problema degli ebrei ma delle società liberali».

Intanto un terzo degli elettori ebrei di New York ha votato per Mamdani, primo sindaco musulmano con posizioni antisioniste.

«Non capisco come abbiano potuto votare per quest’uomo. Penso che sia una reazione contraria al trumpismo e alla destra. Gli Stati Uniti oggi sono molto polarizzati. Nella mia modesta opinione – non parlo come ambasciatore – uno dei problemi della società contemporanea è la mancanza di informazione reale. Non si può costruire l’educazione attraverso TikTok, Facebook, Twitter».

A proposito di Stati Uniti, Donald Trump ha chiesto al vostro Presidente la grazia per Netanyahu. Non c’è il rischio che Israele venga percepito come uno Stato a sovranità limitata?

«Assolutamente sì. Abbiamo un grande rispetto per il presidente Trump ma, quando sono in ballo gli affari interni degli altri Paesi, bisogna restare nei limiti. Non sono sicuro che se il nostro Presidente scrivesse una lettera a Trump per chiedere l’amnistia a qualcuno negli Stati Uniti, il popolo americano sarebbe contento».

Gli accordi di Abramo potranno creare le condizioni per “due popoli, due Stati”?

«Prima dobbiamo estendere gli accordi ad altri Paesi, penso ad Arabia e Indonesia. Sarebbe un risultato molto importante. I 24 Paese del piano Trump condividono lo stesso obiettivo: sconfiggere il terrorismo e l’estremismo islamico. Fatti progressi in tal senso, discuteremo di una soluzione per i palestinesi. Come verrà definita, è ancora presto per dirlo. Ma dobbiamo imparare a vivere in pace, fianco a fianco».


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