Report di Luca Pessina, Giovanni Mascherpa e Stefano Protti
Foto a cura di Em Coulter Photography (Sito | Instagram | Facebook)
Per celebrare il proprio ventesimo anniversario, il Damnation Festival ha finalmente compiuto un passo che da tempo sembrava nell’aria: trasformarsi ufficialmente in un evento di due giorni. Una decisione che sancisce in modo simbolico e concreto la crescita costante della rassegna di Manchester, ormai proiettata a consolidarsi come il più grande e influente festival metal indoor in Europa. L’ampliamento era, in fondo, inevitabile: negli ultimi anni il Damnation ha ampliato il proprio raggio d’azione, accogliendo un pubblico sempre più numeroso e internazionale, senza però rinunciare alla cura organizzativa e all’attenzione per i dettagli che lo hanno reso un appuntamento di culto nel calendario britannico.
Naturalmente, non tutti i fan storici guardano con entusiasmo a questo processo di espansione. C’è chi ancora rimpiange l’atmosfera più raccolta e familiare delle edizioni ospitate anni fa all’Università di Leeds, dove la vicinanza tra pubblico e band, e la scala più contenuta degli spazi, favorivano una sensazione di comunità difficilmente replicabile in una venue delle dimensioni della BEC Arena.
Tuttavia, la direzione intrapresa dal festival appare chiara: crescere, senza perdere identità, per continuare a offrire una piattaforma di livello internazionale alla scena estrema in tutte le sue declinazioni.
Le celebrazioni del ventennale sono iniziate nella serata di venerdì con la Night Of Salvation, un prologo ospitato in un’altra location di Manchester, dove Conjurer, Stampin’ Ground, Deadguy e Raging Speedhorn hanno dato vita a una serata di rara intensità, richiamando qualche centinaio di fedelissimi giunti in città già alla vigilia del weekend principale.
Dal punto di vista logistico, l’organizzazione ha confermato gli standard di efficienza ormai consueti, pur con qualche dettaglio ancora perfettibile. L’offerta culinaria si è rivelata variegata e di buona qualità, ma due o tre stand aggiuntivi non guasterebbero: con cinque-seimila persone da servire, i food truck presenti danno talvolta l’impressione di poter restare a corto di scorte nei momenti di picco.
Ottima invece l’idea di posizionare diverse dozzine di sedie all’interno dell’arena, un piccolo ma significativo segno di attenzione verso il comfort del pubblico. All’esterno, tuttavia, i tavoli continuano a essere pochi in rapporto all’affluenza complessiva.
Sul piano artistico, il Damnation ha ribadito la propria identità, costruendo una line-up coerente e sfaccettata, pensata per ascoltatori open minded più che per puristi di un solo genere.
L’anima del festival resta quella di un crocevia per gli amanti del black metal, del post-metal e di tutte le forme ibride e sperimentali che gravitano intorno ai confini più oscuri e contemporanei del metal. Gli unici territori esclusi restano quelli più ‘solari’ o tradizionalmente melodici – power, symphonic e affini – a conferma di una filosofia curatoriale che privilegia coerenza, un certo rischio e profondità rispetto all’appeal mainstream.
In definitiva, il ventennale del Damnation segna un punto di svolta: un festival ormai maturo, saldo nelle proprie scelte e sempre più consapevole del proprio ruolo centrale nella scena europea. L’impressione, più che mai, è che i due giorni diventeranno da ora la nuova normalità.
SABATO 8 NOVEMBRE
La giornata di sabato al Damnation Festival 2025 per noi inizia con un’aria elettrica, e i NECROT si incaricano di dare il via alle danze con una prova di forza che rappresenta al meglio il loro percorso.
Il trio californiano, ormai tra i nomi più solidi del panorama death metal contemporaneo a stelle e strisce, imposta il set sull’ultimo “Lifeless Birth”, suonando con una precisione che non toglie nulla all’impatto. Luca Indrio, voce e basso, è come sempre il perno dello spettacolo: il suo carisma è naturale, istintivo, e la sua capacità di mantenere il pubblico in pugno con battute ironiche e interventi sarcastici dimostra un mestiere consumato. Il suono è pieno, rotondo, i riff di Sonny Reinhardt tagliano dritti e secchi, e la batteria di Chad Gailey dà l’impressione di un motore in pieno regime.
Non ci sono fronzoli, non c’è spettacolo accessorio: solo tre musicisti estremamente affiatati che eseguono un set serrato, professionale ma vivo, in grado di trasmettere l’essenza più diretta del genere. Il pubblico risponde con entusiasmo, e molti accorsi presto al festival si trovano catapultati in una dimensione di puro headbanging, ideale per cominciare una giornata che si preannuncia lunga e densa. (Luca Pessina)
Sul loro sito Bandcamp, i newyorkesi CASTLE RAT si definiscono una band di “Medieval Fantasy Heavy Metal”, anche se, a guardarli sul palco, sembrano usciti da un videogioco anni ’80 tipo “Golden Axe”.
Guidati dall’affascinante Riley Pinkerton/The Rat Queen, i cinque sembrano aver trovato la ricetta perfetta per attirare l’attenzione, grazie a un immaginario sufficientemente curioso e a un paio di dischi (“Into the Realms” e il più recente “The Bestiary”) di doom dalla scrittura decisa. Il rapporto tra spettacolo e contenuto musicale si rovescia, sfortunatamente, sul palco: una rappresentazione scenica amatoriale (una ballerina/ratto che si muove sul palco, combattimenti con spade) da un lato mette in luce l’inesperienza della band in questo campo, dall’altro lascia in secondo piano le ottime canzoni del loro repertorio (“Wizard” e “Dragon” su tutte) e la significativa bravura tecnica.
Pur non sentendoci di consigliare loro un modello come l’austerità dei nostrani Messa, per rimanere in un ambito musicale affine, la speranza è che le anime musicale e teatrale dei Castle Rat trovino un equilibrio che ora non c’è. (Stefano Protti)
Il passaggio ai DEADGUY segna il primo di parecchi cambi netti di atmosfera. Il gruppo, di recente tornato sulle scene dopo decenni, porta con sé una storia particolare: quella di una band che negli anni Novanta bruciò veloce e lasciò un segno profondo nel panorama hardcore e noise-rock americano.
Il pubblico li accoglie con rispetto e affetto, ma la resa live, pur intensa, lascia spazio a qualche perplessità. Il nervosismo claustrofobico e la furia spezzata del mitico “Fixation on a Coworker” emergono a tratti, ma non con la stessa morsa d’un tempo. Le dissonanze, i tempi storti e la rabbia vocale ci sono ancora, ma mancano di quella tensione istintiva che un tempo pareva sul punto di esplodere in qualsiasi momento.
Gli anni si fanno sentire: i musicisti appaiono concentrati, ma un po’ appesantiti, e i momenti migliori arrivano nei frangenti più strutturati, quando la band, di recente tornato con il nuovo “Near-Death Travel Experiences”, sembra ritrovare l’antico slancio. È un concerto tutto sommato di mestiere, sostenuto da un pubblico che li accompagna quasi per riconoscenza, come a voler ringraziare per ciò che hanno rappresentato, più che per l’impatto effettivo della performance. (Luca Pessina)
I MESSA entrano in scena in un clima completamente diverso, portando con sé una calma elegante e un magnetismo che non ha bisogno di urla né di gesti plateali. La band italiana, fresca di un lungo tour europeo al fianco dei Paradise Lost, si presenta con una sicurezza totale, quasi disarmante.
La loro miscela di doom, psichedelia e jazz fluisce con naturalezza, e l’acustica della BEC Arena per una volta restituisce perfettamente le sfumature dei brani, dai passaggi più eterei ai momenti di esplosione sonora. Sara, sempre impeccabile alla voce, domina la scena con carisma sobrio, il suo timbro pieno e controllato disegna melodie di rara eleganza. La band è un organismo coeso: ogni dettaglio è calibrato, ogni crescendo costruito con attenzione. Si inizia ad avvertire il peso di una certa esperienza, ma anche una visione artistica matura, che rifugge ogni banalità.
Chi parla di freddezza nei confronti dei Messa, probabilmente confonde la compostezza con la distanza: non c’è nulla di artificiale nella loro presenza scenica, solo un’estetica precisa, coerente con la loro musica. Il pubblico, silenzioso nei passaggi più delicati e travolto nei momenti più intensi, sembra comprendere e apprezzare appieno questa dimensione più contemplativa. (Luca Pessina)
Per gli ORBIT CULTURE ci sentiamo di sposare quanto detto in fase di recensione: “In attività da una dozzina d’anni, i quattro svedesi sono cresciuti in maniera lenta ma costante, alla vecchia maniera: dischi qualitativamente superiori l’uno all’altro e più variegati secondo la teoria dei piccoli passi”. Il quartetto è ormai presenza fissa nei festival, e se lo è meritato con una gavetta faticosa e con una serie fortunata di album iniziata con “Nija” del 2020.
In un’ottica di maturazione che prevede comunque una maggiore apertura al mercato, ogni uscita è stata caratterizzata da un progressivo ammorbidimento del suono; così la band al Damnation oggi è diversa da quella che vedemmo alcuni anni fa sul palco del Brutal Assault.
Oggi il gruppo, forte del successo di “Death Above Life”, declina in tono più morbido le intuizioni di Fear Factory e In Flames (“The Storm”), gioca con gli archetipi del nu metal korniano (il quasi classico “North Star of Nija”) e prende in prestito dai Meshuggah una scenografia di luci accecanti alle spalle dei musicisti. Ruvidi e melodici, gli Orbit Culture imbastiscono uno show efficace, con una scaletta solida.
Noi forse li preferivamo più grezzi, ma, in ogni caso, promossi (Stefano Protti).
Con i PORTRAYAL OF GUILT, la tensione si sposta su registri più abrasivi. I texani salgono sul palco come una lama che si apre tra la folla: il loro set è una miscela di brutalità e controllo, dove ogni passaggio è misurato e preciso. Negli anni la band ha affinato il proprio linguaggio, trasformando il caos giovanile degli esordi in un arsenale di emozioni affilate. Il black metal si intreccia al post-hardcore e a pulsioni quasi industriali, in un continuo gioco di contrasti.
Il chitarrista/cantante Matt King urla come se fosse in trance, mentre la chitarra taglia linee glaciali sopra una batteria instancabile. Ogni brano è un frammento di catarsi, un equilibrio fra violenza e disciplina.
A colpire è la maturità del gruppo: dove prima c’era solo furia, oggi c’è anche una costruzione. È un live di grande intensità emotiva, che non punta solo sul caos, ma anche sulla precisione come strumento di devastazione. (Luca Pessina)
Negli ultimi due anni il progetto AFSKY ha trovato accoglienza in numerosi festival di metal estremo, e non è quindi una sorpresa trovarne il nome tra quelli che hanno deliziato gli spettatori del Damnation con un black metal atmosferico che, complice un volume assassino, assume i toni di un veemente assalto sonico.
La band è affiatata (in scaletta si riconoscono brani dall’ultimo “Fællesskab”), e l’impressione è quella di trovarsi di fronte a uno show dei Taake (per compattezza sonora e crudeltà della voce) ma ingentilito da melodie struggenti che impregnano la struttura dei pezzi fino a saturarli.
Ogni particolare è un inutile orpello: scenografia scarna, musicisti immobili, luci essenziali; c’è solo la musica, un vento gelido e maligno che fa battere le persiane, a ricordarci che il tepore di quel camino, nella casa dove abbiamo trovato rifugio, non durerà per sempre. Meglio non impigrirsi pensando “ci sarà un’altra occasione”. Fatelo anche voi, vedete di non perdervi gli Afsky in futuro. (Stefano Protti)
Con i BRODEQUIN, il peso della storia torna a farsi sentire. Gli americani, rarissimi da vedere dal vivo (tanto che questa è la loro prima calata nel Regno Unito), incarnano un capitolo seminale del brutal death metal statunitense. Il loro ritorno è un evento, e la folla si accalca sotto il palco con aspettative alte.
Il gruppo non delude: il suono è secco, chirurgico, un flusso continuo di riff e blast-beat che non concede tregua. Si alternano brani dall’ultimo “Harbinger of Woe”, acclamato come un ritorno in piena forma, e chicche tratte dai primi lavori – soprattutto “Instruments of Torture” e “Festival of Death” – accolte con boati di entusiasmo. L’intensità della performance è totale: pochi gruppi riescono a suonare così estremi senza perdere controllo e coesione. Dal debut viene persino recuperata “Soothsayer”, suonata dal vivo per la prima volta nella storia del terzetto.
Jamie Bailey scherza con il pubblico, affermando che il prossimo pezzo sarà un ‘lento’, e la platea ride pregustando l’ennesima frustata. Ovviamente i Brodequin non puntano sulla teatralità, ma sulla pura fisicità del suono, e il pubblico ne esce quasi stordito. È una celebrazione del death metal più crudo, ma anche un tributo alla perseveranza e alla dedizione di una band che ha saputo sopravvivere all’oblio. (Luca Pessina)
I PANZERFAUST prendono il testimone e portano la giornata su toni più ritualistici. I primi minuti sono penalizzati da un suono un po’ confuso e da un palco che non consente al gigantesco frontman Goliath di imporsi visivamente come al solito, ma col passare del tempo la band trova la sua dimensione e trasforma la performance in un crescendo magnetico.
I canadesi sono oggi una delle realtà più rispettate del black metal contemporaneo, grazie a un linguaggio che unisce la dissonanza a una tensione bellica quasi cinematografica. I brani, talvolta lunghi e stratificati, vengono eseguiti con precisione e intensità crescente: ogni accordo sembra parte di una costruzione più ampia, ogni silenzio pesa quanto un urlo. Goliath, nonostante la posizione più ‘terrena’, riesce comunque a imporsi con una presenza che incute rispetto.
La loro è una prova che non ha bisogno di eccessi per risultare potente: il suono basta, e il pubblico lo sa. (Luca Pessina)
I DEAFHEAVEN salgono sul palco accolti da un entusiasmo palpabile, e fin dai primi istanti è chiaro che la scaletta è quasi interamente incentrata sull’ultimo “Lonely People with Power”. L’impressione è quella di una band che vuole riaffermare la propria identità, ma anche aprirsi a una dimensione più diretta e accessibile.
Dove un tempo dominavano strutture estese e dilatate, oggi i brani sono brevi, concisi e costruiti per la dimensione live. Il risultato è un concerto più fisico, dinamico, che mostra un lato della band finora meno esplorato.
George Clarke, già celebre per i suoi balletti, abbandona del tutto ogni forma di distacco e si muove con energia costante: incita il pubblico, si piega sul bordo del palco, quasi a voler annullare la distanza tra sé e gli spettatori. È evidente che il recente tour con i Knocked Loose abbia lasciato il segno: i Deafheaven appaiono più confidenti, più sciolti, più ‘rock’ nel senso più istintivo del termine.
Il pubblico risponde con partecipazione, anche se la parte più affezionata della fanbase resta in attesa dei classici: e quando arrivano “Brought to the Water” e soprattutto “Dream House”, l’atmosfera cambia completamente. Le nuove tracce possono convincere per freschezza e immediatezza, ma sono i vecchi brani, con la loro potenza catartica e malinconica, a risvegliare davvero la folla.
Nel complesso è uno show piacevole, costruito con intelligenza, che testimonia la definitiva affermazione di un gruppo capace di rinnovarsi senza rinnegare completamente la propria essenza. (Luca Pessina)
In mezzo all’incessante violenza, declinata in miriadi di salse, dominante per la fetta preponderante del programma, vi sono alcune gradite oasi di pace, esibizioni dal taglio assai più quieto e distensivo.
Lungimirante risulta allora l’inserimento degli svedesi EF e del loro sognante e sfaccettato post-rock. Una musica che nel loro caso abbandona il consueto carattere interamente strumentale tipico del genere, per concedersi minoritarie ma importanti aggiunte vocali. Quasi nel segno di divenire, le due sommesse voci utilizzate, altrettanti strumenti tra gli strumenti.
Con loro il colpo d’occhio è davvero intrigante, con evocativi filmati, dal taglio nostalgico, richiamanti un passato non lontano ma ormai irrimediabilmente perduto, a interagire con le movenze misurate dei musicisti. Il pacifico, per quanto energico, fluire della musica che si ode su disco, dal vivo, come spesso accade per il miglior post-rock, diviene imponente, una deflagrazione cristallina di emozioni, tristezze e slancii vitali.
Il violoncello si insinua allora tra le chitarre dando all’insieme accecante poesia, le progressioni avanzano impetuose, in climax di ampissimo respiro e connotati da tanti piccoli, suggestivi dettagli. Quella degli EF loro è una prestazione dolcemente immersiva, magnetica fin dalle prime batture e appagante in ogni suo tratto del percorso. Un toccante tripudio di note (Giovanni Mascherpa).
Il ritorno dei WORMROT è uno dei momenti più attesi del weekend, e la band di Singapore non delude nemmeno per un secondo. Dopo anni di assenza, rivedere insieme sul palco la formazione originale – con Arif alla voce e Fitri alla batteria, accanto all’instancabile Rasyid alla chitarra – ha il sapore di una celebrazione. Il trio non perde tempo in chiacchiere e attacca con la consueta ferocia: il set è un assalto tra passaggi parossistici e groove che attraversa l’intera discografia, dal più recente “Hiss” fino agli esordi, con incursioni persino nell’ottimo mini “Noise”.
La chimica tra i tre è immediata, intatta, e si percepisce che dietro la furia c’è un legame umano e musicale profondo. Arif è una furia vocale, Fitri una macchina ritmica di indubbia precisione, e Rasyid tiene tutto insieme con riff taglienti e una presenza da veterano. La folla, che inizialmente osserva quasi con reverenza, esplode rapidamente in circle pit e stage diving.
Il concerto fila via senza pause, travolgente, ricordando a tutti perché i Wormrot siano praticamente da sempre considerati una delle migliori live band in ambito grindcore. Non c’è bisogno di grandi effetti o di parole: bastano trenta minuti abbondanti di pura intensità per lasciare un segno profondo. (Luca Pessina)
Verso la fine della giornata, si cambia di nuovo registro nel modo più coerente possibile con la filosofia del Damnation, grazie all’arrivo di PERTURBATOR.
James Kent, accompagnato dal suo batterista, trasforma la BEC Arena in una pista da ballo futurista, dove luci, ombre e suoni digitali si fondono in un’estetica cyberpunk di forte impatto visivo.
Il set attraversa l’intera carriera, dai brani più cupi e cinematici agli inni più immediatamente accattivanti come “Venger” e “Neo Tokyo”, accolti da un pubblico che per buona parte non smette di muoversi. Negli ultimi anni, Kent ha accentuato la componente ‘metal’ della propria presenza scenica: headbanging, chitarra a tracolla, un’attitudine quasi da frontman hard rock, pur restando ancorato alla sensibilità elettronica che lo ha reso celebre.
Il contrasto tra la freddezza digitale dei suoni e il calore fisico della performance crea un effetto ipnotico, e mentre il pubblico balla e ondeggia sotto le luci stroboscopiche, il confine tra concerto e rave sembra dissolversi. È un capitolo perfetto all’interno di una giornata che riassume alla perfezione lo spirito del festival: varietà, contaminazione, libertà. (Luca Pessina)
A chiudere il primo giorno ci pensano i CORROSION OF CONFORMITY, aedi del suono sudista tornati da qualche anno a esibirsi nell’assetto dei loro anni virati allo sludge e a una forma iper-grassa di hard rock.
La proiezione sullo sfondo degli artwork che dovrebbero caratterizzare i due album in uscita nel 2026 fornisce una cornice sgargiante e coloratissima per i quattro vecchi leoni sul palco e la prestazione, fin dall’inizio, si rivela di altissimo livello. Temevamo di trovarli un po’ invecchiati e in formato ‘vecchia gloria’, invece Pepper Keenan e compagni stanno alla grande.
Davanti a una folla veramente sterminata, ci assaltano con volumi assassini e il loro inconfondibile feeling, forti di una classe e un’energia che solo chi arriva da quelle zone di palude, caldo e umidità come le loro può possedere. C’è proprio la sensazione che i quattro si divertano tantissimo mentre suonano, come se non volessero fare altro, avessero desiderio di stare sul palco per tutta la notte e godersela mentre menano schiaffoni uno dietro l’altro.
La scaletta va al cuore pulsante dei loro anni più belli, quelli indemoniati e baciati da ispirazione divina, con una felice alternanza di estratti più violenti e da pogo vecchia scuola – una bella costante dell’intero weekend, va detto – e altri più pastosi e grooveggianti.
Keenan è in condizioni vocali eccellenti, perfetto maestro di cerimonia di un concerto perfetto dal primo all’ultimo respiro, vissuto tra i continui ammiccamenti tra i membri della band e versioni da leccarsi i baffi di “King Of The Rotten”, “Vote With A Bullet”, “Who’s Got The Fire” e la conclusiva “Clean My Wounds”. Non un dettaglio fuori posto e la sensazione di aver riabbracciato il gruppo pienamente, ritrovandoci di nuovo assieme a dei vecchi amici, che appena rivisti ci fanno scordare quanto tempo sia trascorso in loro assenza (Giovanni Mascherpa).
DOMENICA 9 NOVEMBRE
La giornata di domenica del Damnation 2025 si apre in modo raccolto e quasi intimo con i CODE, gruppo britannico tra i più raffinati interpreti dell’avantgarde black metal. La loro proposta, elusiva e sinuosa, non è certo per tutti: in un panorama dove l’estremo si è fatto spesso sinonimo di intensità muscolare, i Code preferiscono un approccio intellettuale, fatto di stratificazioni, cambi di umore e un’eleganza che rimanda a nomi come Ved Buens Ende e i Dødheimsgard più introspettivi.
Il pubblico che li segue oggi non è numerosissimo, ma ascolta con attenzione religiosa: si tratta di uno di quei concerti che non puntano a travolgere, ma a catturare lentamente. I suoni non sempre risultano bilanciati, con qualche frequenza che sfugge di mano, ma l’esecuzione è precisa e la band trasmette una professionalità disarmante. Forse i Code parlano davvero a un pubblico più adulto, abituato a cercare nell’oscurità sfumature e non soltanto violenza, ma la loro eleganza resta indiscutibile. (Luca Pessina)
Con gli STAMPIN’ GROUND il festival cambia marcia: si passa dal raziocinio al puro istinto. Il gruppo britannico celebra i venticinque anni di “Carved from Empty Words”, il loro lavoro più rappresentativo, quello che fuse in modo credibile (thrash) metal e hardcore ben prima che da queste parti il termine ‘metalcore’ iniziasse a ad avere accezioni discutibili.
Sul palco, il quintetto dimostra che quella rabbia non si è mai spenta: l’attitudine è rimasta la stessa, e i brani, dopo un quarto di secolo, suonano ancora urgenti, taglienti, tutto sommato attuali. Chi negli anni a cavallo tra i Novanta e i Duemila aveva già familiarità con il filone hardcore più metallico, venerava gli Stampin’ Ground come un punto di riferimento imprescindibile, e di conseguenza risultava difficile prendere sul serio certe band scandinave definite thrash-death che all’epoca uscivano con opere sempre più innocue e di plastica. Davanti a un set come questo si ha la riprova che non si trattava di un’impressione passeggera.
Sul piano fisico, il pit esplode: una massa compatta di corpi in movimento, che restituisce al gruppo un’energia contagiosa. Lo show, abrasivo e senza fronzoli, dimostra che lo spirito originario di “Carved from Empty Words” è invecchiato bene, e che la band non ha perso nulla della sua credibilità. (Luca Pessina)
Leggenda underground dello sludge-hardcore del Regno Unito, i RAGING SPEEDHORN sono quanto di più veracemente anglossassone si possa ammirare su di un palco. Ovviamente se della Terra d’Albione avete soprattutto a cuore la sua dimensione working class, la verace periferia dell’Impero, colei che innerva la tradizione e costituisce lo zoccolo duro dell’identità nazionale. O almeno fa questo nella nostra immaginazione.
Da poco più di una decina d’anni, proprio da quando si rifecero vivi all’edizione 2014 del Damnation Festival, i Nostri sono ritornati a svolgere il loro compito preferito: far rintronare le orecchie con il loro hooligan metal, rumorosissimo impasto di sludge, hardcore e, ultimamente, rock’n’roll estremizzato.
Come accaduto poco prima con i colleghi Stampin’ Ground, il pit è una disordinata bolgia, incitata a darci dentro dal duopolio vocale dello storico Frank Regan e del più giovane, altrettanto prestante, Daniel Cook. Normalmente i Raging Speedhorn suonano in locali di provincia, davanti a un pubblico abbastanza contenuto, mentre a Manchester si ritrovano davanti tutt’altra situazione: cambia poco per loro, live band caciarona ma precisa nel portare avanti il suo discorso sonoro. A
nthem su anthem si riversano su un’audience accanita e affamata di note rissose e in costante scontro, con le recenti “Hard To Kill” e Every Night’s Alright For Fighting” a sfamare desideri di violenza e orecchiabilità. A loro modo, una lezione di stile. (Giovanni Mascherpa)
Con i PIG DESTROYER l’atmosfera diventa più cupa e imprevedibile: è uno show che suona come un tributo, oltre che come una celebrazione. Da culto inavvicinabile, la band americana è ormai una presenza abbastanza stabile nei festival, ma non ha perso la sua carica corrosiva. Scott Hull guida il gruppo con precisione chirurgica, mentre J.R. Hayes si dimena con foga incontrollata.
Il set è una sorta di ‘best of’ che attraversa l’intera carriera, dai momenti più grind fino alle deviazioni thrash che hanno reso celebri tante tracce del repertorio. L’assenza del tastierista Blake Harrison, scomparso per infarto due anni fa, si avverte, ma anche questo contribuisce a rendere il concerto speciale: ogni brano sembra un omaggio alla memoria del loro compagno. La band non cade nella malinconia, però; suona compatta, rabbiosa, vitale.
Tra un pezzo e l’altro, Hayes dedica la serata a Tomas Lindberg degli At The Gates, chiudendo un cerchio ideale tra generazioni di pionieri dell’estremo. (Luca Pessina)
Seguono i DEVIL SOLD HIS SOUL, che con il loro post-rock metallizzato offrono un momento di respiro e introspezione. Il gruppo festeggia i vent’anni del debutto “Darkness Prevails”, a cui vengono aggiunti alcuni estratti dal primo full-length “A Fragile Hope”. È un set costruito con sensibilità, che alterna momenti di quiete eterea a esplosioni emozionali, e mostra come la band sia riuscita a mantenere una propria identità nel tempo, nonostante i lunghi silenzi discografici.
Le chitarre tessono paesaggi sonori malinconici, le due voci si alternano con intensità e la risposta del pubblico è calorosa, anche da parte di chi non li conosce a fondo. Nel contesto di un festival che ospita molte band post-metal e affini, i Devil Sold His Soul riescono a distinguersi per sincerità e trasporto, confermando la propria solidità e una discreta eleganza compositiva. (Luca Pessina)
Gli ANAAL NATHRAKH offrono invece una delle performance più monumentali del weekend. Il loro black metal industrializzato e apocalittico riempie ogni centimetro della sala principale, con un muro sonoro che unisce ferocia e precisione. La scaletta privilegia le uscite più recenti, ma la resa è talmente potente che nessuno sembra rimpiangere troppo i vecchi brani. Il suono è compatto, quasi fisico, e il grande gioco di luci e proiezioni sullo sfondo trasforma lo show in un’esperienza immersiva, quasi teatrale.
Dave Hunt appare in buona forma: la sua voce regge bene anche nei passaggi più acuti e nelle sezioni corali ‘alla Emperor’, dove ogni tanto emerge una certa enfasi, ma mai tale da scadere nella completa caricatura. La risposta del pubblico è travolgente: cori, pugni alzati, mosh spontanei.
In patria gli Anaal Nathrakh sono più che un nome di culto – sono un’istituzione, e si sente. L’impatto è tellurico, ma anche emotivo: sotto la coltre di rumore e brutalità si percepisce un pathos quasi epico, come se la band traducesse in musica la rabbia e la decadenza della contemporaneità. (Luca Pessina)
I THE HAUNTED invece partono in salita: i suoni iniziali sono confusi, le chitarre si perdono in un mix particolarmente sbilanciato. Ma con il passare dei minuti la band svedese ritrova la propria dimensione e, come un motore che si scalda lentamente, inizia a girare a pieno regime.
La differenza tra il vecchio repertorio e quello più recente resta netta, quasi imbarazzante: i pezzi dei primi album hanno una spontaneità che le produzioni più moderne non riescono a replicare. Ma quando partono “Bury Your Dead” e soprattutto “Hate Song”, il pubblico dimentica ogni incertezza e torna adolescente.
Marco Aro, carismatico e genuino, tiene il palco con energia, supportato da una band che pur con sempre più anni sulle spalle, sa ancora come farsi valere.
Non è uno show perfetto, ma è autentico: i The Haunted evidentemente credono di non dovere dimostrare più nulla, e si divertono a fare ciò che sanno fare meglio, scatenando un’ondata di nostalgia e adrenalina. Alla fine, l’impressione è quella di aver assistito a un concerto imperfetto ma onesto, capace di ricordare a tutti da dove arriviamo. (Luca Pessina)
Gli SPECTRAL WOUND sono tra le band più chiacchierate dell’edizione 2025 del Damnation, e dal vivo confermano tutte le aspettative. I canadesi propongono un black metal affilato, melodico e di grande impatto, attraversato da una sottile vena punk che dal vivo emerge con un po’ più di forza.
Pur non cercando l’innovazione a tutti i costi, il gruppo compensa con l’ispirazione dei brani, che spesso risultano immediatamente riconoscibili e capaci di catturare l’attenzione anche del pubblico meno ferrato. Le strutture sono agili ma complesse e il suono ha una freschezza naturale che tradisce la passione dei musicisti, visibilmente affiatati sul palco.
Dal vivo, ogni dettaglio prende corpo: le parti più melodiche respirano, i passaggi più rapidi e incisivi creano picchi di tensione che scatenano il pubblico. È chiaro perché la band stia riscuotendo così tanto successo negli ultimi tempi: la combinazione di songwriting efficace e presenza scenica solida li rende uno dei nomi emergenti più convincenti nel panorama black metal contemporaneo.
Lo show dei Spectral Wound diventa così un momento di energia pura, un piccolo manifesto della loro proposta musicale: snelli, affilati, capaci di catturare l’attenzione senza artifici, e perfettamente a loro agio in un festival che celebra l’estremo in tutte le sue sfumature. (Luca Pessina)
Hanno (voce, chitarra) ed Erinc (batteria, seconda voce) si sono costruiti una solida credibilità artistica in questi intensi anni come MANTAR. Un duo rimasto genuinamente underground nonostante qualche anno sotto l’egida della Nuclear Blast, capace di distinguersi per un personale assemblato di sludge, punk/hardcore, sprazzi extreme metal e inaspettate sfumature darkwave. Un suono grasso e urticante, il loro, adattissimo alla dimensione live.
Posizionato abbastanza in alto nel programma, il duo tedesco non tradisce la sua fama, offrendo uno spettacolo spietato, asciutto e sudato, come da prassi e da identità fondativa. Uno di fronte all’altro, a torso nudo, tanto per ribadire quanta foga e ardore ci mettano, i due non risparmiano nel muoversi in lungo e in largo nella loro ormai nutrita discografia.
Il 2025 li ha riportati sul mercato con lo sfaccettato “Post Apocalyptic Depression”, ma quest’ultimo non monopolizza una setlist omnicomprensiva di quello che i Mantar sanno offrire: comune denominatore resta un fare selvaggio, per quanto rigoroso nell’impostazione, tra le ritmiche quadrate e dirompenti di Erinc e il chitarrismo abrasivo ma cangiante di Hanno, i suoi vocalizzi di marca crust/punk e lo humour nella pause, a stemperare il carico opprimente dei volumi e sottolineare l’approccio ben poco costruito di questi musicisti.
Per chi scrive il meglio arriva dai brani più datati, con “Spit” (dall’esordio “Death By Burning”) ed “Era Borealis” (dal successivo “Ode To The Flames”) a darci le mazzate più dolorose. Felici averli rivisti dal vivo dopo qualche anno. (Giovanni Mascherpa)
Mentre scriviamo queste poche righe, ci giunge notizia della volontà degli WARNING di registrare nuovo materiale, che andrà ad arricchire un’anagrafe di brani piuttosto esigua (circa dieci pezzi) ferma al 2006.
Il nome della band è indissolubilmente legato a quello di Patrick Walker, che dei quattro di Harlow è stato voce e leader, prima di esplorare nuove strade espressive con i 40 Watt Sun. Al di là delle differenze stilistiche, ciò che distingue realmente i due progetti è che, mentre nei lavori dei 40 Watt Sun la sfera emozionale è protagonista della scena (valgano come esempio pezzi emozionanti come “Reveal” o “Carry Me Home”), gli Warning osservano il susseguirsi degli eventi con un senso quieto di fatalità, opponendo alle dolorose immagini del doom tradizionale una sorta di malinconico acquerello.
“Watching From a Distance”, appunto, come il titolo del loro secondo e, per ora, ultimo album, la cui scaletta viene riproposta fedelmente sul palco del Damnation: oltre cinquanta minuti per un concerto di dolcezza infinita, a partire da una title-track in cui le chitarre elettriche si infrangono pigre, ad ondate, contro un canto che guarda la sua vita cambiare, impotente, passando per “Blueprints” (meno di otto minuti, la cosa più vicina a un singolo mai pubblicata dalla band) e “Faces”, la cui melodia mostra i primi tentativi di connettersi allo slowcore, fino al tremolante raggio di luce che attraversa “Echoes” (“And when I see you smile I know there’s something stronger yet than any dream I ever placed at someone’s feet”).
La resa dei pezzi è straordinariamente vicina a quella sentita su album: il lavoro di Prestidge dietro le pelli è preciso e minimale come sempre, e Patrick Walker sta quieto al microfono con la grazia distaccata di un Nick Holmes, limitandosi a mimare i colpi di batteria con la bocca, tra una strofa e l’altra. Per molti presenti, il concerto migliore del festival. (Stefano Protti)
Infine, tocca ai NAPALM DEATH, e non potrebbe esserci chiusura più simbolica per un festival come il Damnation. Shane Embury è ancora convalescente, e al suo posto al basso troviamo Adam Clarkson dei Corrupt Moral Altar: Barney ci tiene subito a chiarire che Shane tornerà non appena starà meglio, accolto da un’ovazione collettiva. Il resto è il consueto spettacolo travolgente: una miscela di caos organizzato e rabbia lucida, che non smette mai di essere coerente con se stessa. L’impronta delle ultime opere si fa sentire, specialmente nei brani più sperimentali, come l’ottimo tributo post-punk di “Amoral”, ma i grandi classici non mancano, e ogni pezzo storico scatena un’onda d’urto che percorre tutta la sala.
Barney, sempre più asciutto ma ancora instancabile, urla, corre, gesticola, con la stessa energia di sempre. Il resto del gruppo completa il quadro con precisione, mentre il pubblico, diviso tra veterani stanchi e fan in piena trance, reagisce con entusiasmo incondizionato. È un concerto che va oltre la semplice esibizione e che, con il passare dei minuti, sa sempre più di un abbraccio tra band e pubblico, i quali, per buona parte, condividono la stessa etica e la stessa integrità.
I Napalm Death chiudono così l’edizione 2025 nel modo più coerente possibile: con un messaggio di onestà e libertà artistica… le stesse qualità che fanno del Damnation uno dei festival più vitali d’Europa. (Luca Pessina)









