Martino Garattoni è il celebre bassista dei Ne Obliviscaris, gruppo australiano di prog metal estremo, capace di creare come pochi una musica raffinata, complessa, variopinta ma straordinariamente coerente e godibile, nonostante si basi su stili distanti, insieme ad armonie e ritmi poco convenzionali. Abbiamo recensito alcuni loro dischi e siamo andati a vederli dal vivo in diverse occasioni e ogni volta li abbiamo promossi. Martino, riminese di origine, oggi vive la musica in un equilibrio tra mestiere e libertà creativa. Il suo stile è molto trasversale, in quanto proviene da esperienze in generi diversi, che ha rielaborato secondo una sua logica personale. In particolare, è un bassista che unisce precisione tecnica e libertà melodica, con un approccio che viene più dalla fusion e dal prog rock che dal metal in senso stretto, come spiega lui stesso. Nel fraseggio alterna linee di accompagnamento molto solide, metriche complesse a passaggi melodici molto cantabili, spesso costruiti come vere e proprie contro-voci. L’idea che emerge è quella di un basso che si fa elemento autonomo dentro l’arrangiamento, capace di sostenere, ma soprattutto di dialogare alla pari con tutti gli altri strumenti. Per la nostra rubrica dedicata alle corde grosse abbiamo incontrato Martino e abbiamo voluto parlarci per capire che cosa significhi suonare il basso in un linguaggio così articolato e quanto contino ancora le mani e l’istinto, in un’epoca di suoni perfetti e software sempre più intelligenti.
Ciao Martino, benvenuto nella nostra rubrica. Sei d’accordo che il basso sia lo strumento più importante dell’universo?
(Ride) Vorrei dirti di sì, ma cerco sempre di essere onesto, perché dipende molto dal contesto. Mi piacerebbe far parte del club durissimo di quelli che dicono “i bassisti sono i migliori”, ma a volte non è così. Di sicuro il basso è vitale, anche se la sua esistenza rappresenta sempre un paradosso: in tantissime situazioni è lo strumento di fondo che se manca te ne accorgi subito, perché crea una differenza, invece se c’è, nessuno se ne accorge. In molti casi è la base su cui poggia tutto; in altri diventa addirittura la voce principale. Pensa al funk: senza il basso quel genere non esisterebbe. Oppure possiamo pensare alla musica elettronica, dove è il basso a far ballare; c’è anche la cassa, ma senza il basso manca qualcosa di veramente importante. Quindi direi che non sia il più importante, ma quando non c’è “si sente” un problema, è lo strumento la cui assenza si avverte di più.
In molti generi, metal compreso, è poco immediato se non poco comprensibile quello che fa il basso e che relazione ha con gli altri strumenti. Tu che tipo di bassista sei?
Nell’ambito del nostro genere io mi sento un po’ atipico. Non speciale, solo diverso. La necessità nel metal spesso è quella di avere un basso forte, a volte anche distorto, che vada a rafforzare la violenza del genere. Io faccio tutto l’opposto, infatti il mio suono e il mio stile vengono tutti dal funk e dalla fusion; per cui di metal in realtà c’è poco, c’è solo la bellezza di mescolare linguaggi diversi, di far convivere le due anime. Non è che non mi piaccia il basso metal, ma quello che faccio segue un’altra logica.
Ascoltandoti, riesci a essere sempre solido nella parte ritmica, ma contemporaneamente presente in quella melodica e armonica. Hai sempre avuto questo stile?
Sì ed è qualcosa che mi è venuto naturale, forse anche per il mio modo di suonare, per cui mi sono sempre trovato meglio con suono un più “medioso” e pulito, non saprei spiegarti bene il perché. Sono partito dal metal, chiaramente, ma poi mi sono spostato verso altri generi. Sono sempre stato molto fissato con il prog, prima prog metal, poi prog rock, e credo che da lì venga non tanto il suono, quanto lo stile: un basso che accompagna, sostiene la ritmica, ma che può anche cantare una melodia quando serve. Credo che sia quello ad avermi formato. Mi ha insegnato a usare il basso come strumento ritmico e melodico insieme.
Chi sono stati i tuoi punti di riferimento?
Tantissimi e diversi nel tempo. Alcuni, però, mi accompagnano da sempre. Prima di tutto Janek Gwizdala, un bassista fusion incredibile. Poi Victor Wooten, da sempre, anche se io non suono con il suo stile, è sempre stato un riferimento per l’approccio e per gli suoi insegnamenti ai bassisti. Quando ho scoperto il prog ho guardato a John Myung dei Dream Theater, e poi a Frank Hermanny, il bassista francese degli Adagio: tecnico, elegante, con un gran suono, al quale mi sono ispirato molto, da lui ho imparato tanto. All’epoca internet non offriva tutto quello che c’è oggi, quindi mi formavo con i vecchi DVD didattici. Più avanti ho seguito anche musicisti come Scott Devine, noto come Scott Bass Lessons e altri insegnanti online. E poi c’è Jaco Pastorius, ovviamente. L’ho studiato tanto fin dall’inizio, stranamente, anche se la mia visione della musica allora era più ristretta. Andava in una direzione completamente diversa da quello che facevo in quel momento, ma mi ha insegnato moltissimo sullo strumento.
Hai suonato per anni con gli Ancient Bards, gruppo power metal, che è un genere molto “verticale” e definito, ma oggi il tuo percorso è molto diverso. Com’è avvenuto il passaggio verso i Ne Obliviscaris?
È stato un passaggio molto naturale. Con i Ne Obliviscaris mi sono trovato in un ambiente che rispecchia perfettamente il mio modo di intendere la musica: libera, spontanea, senza schemi rigidi. Quindi non è tanto nel genere, che c’è ovviamente, ma è nel modo di scrivere dove mi sono trovato particolarmente bene. Lì tutto nasce spontaneamente. Anche se ero l’ultimo arrivato, mi sono trovato a scrivere moltissimo: le idee scorrevano da sole, come se le avessimo sempre condivise. Con gli Ancient Bards la visione musicale era più chiusa. L’esempio che faccio sempre è quello del libro da colorare per bambini: il disegno è già fatto, tu puoi solo scegliere i colori. È bello fino a un certo punto, ma è limitante e per me, che vivo la musica come creatività pura, quella rigidità era diventata una gabbia. Nel pop o in altri ambiti professionali può anche andare bene, per cui se è un progetto di lavoro lo si accetta per come è e lo si fa, ma se suoni per passione, con amici, dev’essere qualcosa che ti libera, non che ti frena. Con i Ne Obliviscaris, invece, è l’opposto, poi è diventato un lavoro, ma è anche la forma più piena di libertà musicale che abbia trovato, per cui la scelta per me è stata facile ed ovvia.
Hai partecipato anche ad altri progetti, come gli OPS, di ispirazione brasiliana. Che ruolo hanno avuto nel tuo percorso?
Come altri, hanno fatto parte del mio percorso lavorativo come musicista e sono stati fondamentali. Nel mio lavoro ho sempre cercato esperienze nuove, anche molto lontane dal metal. Quando ho iniziato a fare il musicista di mestiere, mi sono sempre prefissato di accettare qualsiasi cosa fosse nuova, differente, al di là del fatto che potesse essere remunerativo e quindi se vuoi fare di questo il tuo lavoro si accetta. Io poi per apprendere qualcosa di nuovo, non sono uno che si chiude a studiare uno stile “a tavolino”: io devo entrarci dentro, lavorarci, ho bisogno di metterlo in pratica, di avere una committenza, solo così lo capisco davvero. Con gli OPS mi sono immerso in uno stile che non conoscevo, quello sudamericano, e l’ho imparato suonandolo. Lo stesso vale per altri contesti: pop, funk, dance. Ognuno mi ha lasciato qualcosa, un vocabolario musicale più ampio. Quando oggi scrivo o improvviso, dentro di me convivono tutti quei linguaggi. Magari in un passaggio metal mi esce qualcosa che ricorda un bassista di Vasco Rossi, o un’idea ritmica di un gruppo brasiliano. Non è imitazione: è assimilazione. Ogni esperienza arricchisce il linguaggio che ho a disposizione per esprimermi.
Dopo tutte queste esperienze, come vedi oggi il basso nel metal? C’è ancora spazio per evolversi? C’è qualcosa che non deve perdere?
Non ho massime o regole da dare, però mi sento di dire che negli ultimi anni ho notato una tendenza molto digitale: suoni puliti, perfetti, schematizzati. Capisco perché succede, ma spesso viene a mancare l’elemento umano che rende l’esecuzione spontanea e animata. Non voglio fare il nostalgico, la tecnologia è utile e va usata, però credo che la musica stia perdendo un po’ del suo lato pratico e artigianale, che la rende viva. Il basso, come tutto il metal, può ancora evolversi, ma serve consapevolezza. Oggi con la tecnologia si possono creare linee di basso perfette, anche senza toccare lo strumento: esistono plugin che generano suoni indistinguibili da un vero musicista, ma se si può essere sostituiti troppo facilmente da una macchina, allora c’è un problema. Siamo arrivati al punto che i programmi e le macchine suonano come gli esseri umani, ma uno dei problemi è anche che i musicisti vogliono suonare come le macchine. Un tempo si riconosceva subito il musicista che stava suonando: si sentiva il suo stile, il suo tocco sullo strumento, per cui ascoltavi due note e sapevi che era lui. Oggi ascolti Spotify e tutto suona uguale. Credo che la vera sfida, adesso, sia tornare a suonare davvero, incidere lasciando dentro la traccia un minimo di sbavatura, anche qualche incertezza che si può verificare, ma è quello che rende l’esecuzione complessa e umana, per l’appunto.
Torniamo alla tua carriera: hai iniziato direttamente col basso o da un altro strumento?
Ho iniziato con la chitarra, per circa un anno e mezzo, poi sono passato al basso e non l’ho più lasciato. Col tempo ho aggiunto anche il canto, che oggi è parte del mio lavoro.
Sei anche un insegnante, cosa ti piace di più insegnare?
Difficilissimo rispondere, ma mi piace quando riesco a fissare nei miei allievi i “fondamentali”, quelli veri. Nel mio percorso ho accumulato tantissimo materiale, ma a un certo punto ho capito che saperne troppe e non collegarle serve a poco. Quando tutto diventa logico, ti rendi conto che molte cose derivano da un unico principio: la struttura di base. Puoi conoscere tutte le scale e gli accordi del mondo, ma se non capisci su cosa si fondano, restano nozioni isolate, che però ti dimentichi presto. Per me insegnare vuol dire far arrivare quello: la capacità di capire come funziona la musica, non di ripetere formule. Non credo nello studio a memoria, preferisco dare informazioni che abbiano un’applicazione pratica immediata e soprattutto logica.
Sei di Rimini: quanto è rimasta nella tua musica la Romagna?
Il tre quarti! Il tre quarti vince su tutto… Scherzi a parte, poco, direi molto poco. Purtroppo la Romagna non mi ha dato molto a livello musicale. Mi sarebbe piaciuto restare, ma lì non si vive di musica: mancano opportunità e sostegno dal territorio. Ho ricordi bellissimi del posto, ma legati alla vita, non al lavoro musicale.
È un limite della Romagna o dell’Italia in generale?
Personalmente direi non dell’Italia, perché in realtà gran parte del mio lavoro oggi lo devo proprio all’Italia e alla nostra cultura musicale. Suono spesso in eventi privati, fra cui matrimoni, feste e manifestazioni di vario tipo, e la musica italiana è molto richiesta, anche dagli stranieri. Arrivano americani, svizzeri, persone da Dubai, e tutti vogliono canzoni italiane. La musica italiana rappresenta un bagaglio culturale che può dare tantissimo all’estero e io la vedo in maniera simile alla nostra cucina: rappresenta un’identità, un’atmosfera, uno stile di vita. È una delle poche cose di cui possiamo ancora andare fieri, perché racconta chi siamo.
Parliamo di strumenti: che bassi usi?
Al momento suono con bassi Strandberg e mi trovo benissimo, perché sono comodi, leggeri e affidabili, il che per chi suona viaggiando tanto è fondamentale. Come dico sempre, sono bassi che funzionano sempre: niente fronzoli, suonano bene e basta. Detto questo, sono strumenti di serie, con le limitazioni che possono avere a volte le serie. Il mio basso preferito in assoluto rimane un Fender Jazz Bass modificato: gli ho cambiato i pickup originali con dei single coil EMG e aggiunto un terzo pickup centrale con uno switch per poterlo aggiungere in qualunque configurazione con gli altri due. È un “Frankenstein”, ma suona perfettamente per il mio tocco ed è lo strumento che mi rappresenta di più, sia come timbro sia come risposta sotto le dita, in particolare la tastiera è comodissima. Poi anche questo strumento non si può prestare a tutto, per cui sono in contatto costante con Strandberg, gli scrivo spesso e spero di convincerli prima o poi a fare un modello con la loro liuteria, ma rendendo l’elettronica più simile a quella del Fender, Precision o Jazz, anzi Precision e Jazz insieme. Poi mi piace molto la tecnologia dei bassi headless [ovvero senza paletta]: sono d’accordo con l’opinione comune che non sia bella da vedere, ma non si può negare che sia una tecnologia superiore, non c’è niente da fare, quello è il futuro.
E per quanto riguarda l’amplificazione?
Non uso più amplificatori tradizionali. Lavoro con un preamp GR Bass e suono sempre in cuffia, tutto in-ear. È molto più comodo, pratico e coerente: ovunque vada, il mio suono resta uguale. Vado diretto nel banco e regolo tutto da iPad. È la normalità ormai: tutte le band con cui suono fanno così. A livello economico non cambia molto, ma guadagni in salute della schiena e praticità. In tour non puoi portarti dietro casse e testate: costano, ingombrano e spesso non servono. Già tanti grandi gruppi usano questa soluzione da anni. Alla fine non conta avere il muro di amplificatori, ma far suonare bene lo strumento.
Hai una configurazione particolare di effetti?
Uso ancora il preamp GR che dicevo prima, perché restituisce dei suoni molto fedeli. Il modello che uso io poi ha due canali paralleli. Il secondo canale lo tengo solo per i medi, che sarebbero molto fastidiosi se ascoltati da soli, ma insieme al primo canale, ovvero quello che manda il segnale “originale” dello strumento, danno corpo e presenza. Il risultato è un suono pieno, caldo, con una voce che emerge senza invadere. Non uso molto gli effetti con i gruppi, perché non ne ho la necessità, ma in realtà mi piace sperimentare, a casa ne ho parecchi. Uno dei miei preferiti è il POG della Electro-Harmonix, un pitch shifter [dispositivo che aumenta o riduce la frequenza di una nota, rendendola più acuta o più grave, ndr] che può aggiungere una o due ottave in alto o in basso, oppure può fare anche da pitch shifter classico; ecco questo lo adoro, è uno degli effetti più musicali e immediati che esistano.
Cosa consiglieresti a chi inizia a suonare il basso?
La prima cosa: buttate via il computer e le tablature. Se vi vedo usare computer e tablature, vengo a prendervi a testate! (ride) Scherzi a parte, la cosa più importante è allenare l’orecchio. Senza orecchio non vai da nessuna parte. Se ti limiti a leggere, non impari a sentire. Bisogna tirare giù i brani a orecchio, poi trascrivere, trascrivere, trascrivere, poi trascrivere ancora! È il modo migliore per crescere davvero.
Un caro saluto a Martino Garattoni, artista che vive della propria musica, professionista rigoroso, abituato a lavorare in contesti internazionali, ma che rimane sempre legato alla parte più spontanea e fisica del suonare. La sua creatività, sostenuta da una solida conoscenza teorica, nasce dall’istinto e dal piacere di far parlare lo strumento. Proprio questo equilibrio tra mestiere, pratica e riflessione sulle possibilità del basso rendono il suo suono così vivo e personale. Vi invito a visitare il suo canale YouTube e, appena riuscite, andate a vederlo con i Ne Obliviscaris. (Stefano Mazza)





