L’Ucraina è al buio. I bombardamenti che colpiscono le centrali elettriche stanno compromettendo seriamente la capacità operativa di una rete energetica già fortemente logorata dalle sistematiche distruzioni di cui è stata bersaglio nel corso di ormai quasi quattro anni di guerra. Le immagini delle città ucraine che di sera o di notte si spengono per la necessità di razionare le forniture di energia elettrica, secondo rigidi e prolungati turni di sospensione dell’erogazione, colpiscono e sono emblematiche di tale situazione. Ma la mancanza di energia non è solo notturna, e ha come conseguenza non solamente l’interruzione dell’illuminazione: gli impianti di riscaldamento cessano di lavorare, le pompe che permettono lo scorrimento dell’acqua negli acquedotti o spingono l’acqua ai piani alti dei palazzi perdono energia, gli ascensori non funzionano e in molti complessi residenziali di Kiev o di altre città non sono pochi i palazzi con più di dieci piani, solo per citare alcune delle conseguenze che maggiormente impattano sulla vita quotidiana delle persone. Si annuncia la lunga notte di un inverno buio e molto duro.
È facile nell’abitudine alla guerra, che genera stanchezza o indifferenza, o in una attenzione tutta puntata sulle questioni militari e politiche, sovente prigioniera degli schemi propagandistici dell’una o dell’altra parte, dimenticare o forse non considerare il vissuto umano nella guerra, soprattutto di chi ne è vittima, degli inermi che ne patiscono le conseguenze più dure. Per conoscere e comprendere la guerra occorre guardare a questa realtà, occorre ascoltare non sbrigativamente le voci di chi soffre, occorre guardare negli occhi gli inermi. Chi ha avuto occasione di farlo, visitando l’Ucraina in questi quasi quattro anni e accostandosi alle vittime, ha potuto conoscere il dolore profondo e la compostezza di una società civile resistente ma per tanti versi anche estenuata dalla guerra. È stato possibile ascoltare racconti di donne sfollate dall’est e dal sud del Paese, racconti di assedi e di violenze, di distruzioni e di case devastate, di fughe tra la vita e la morte, di vite azzerate; ascoltare racconti di anziani che hanno perso tutto, o di giovani e giovanissimi che hanno visto infranti i loro sogni; essere testimoni dell’angoscia di chi trascorre le notti sotto i bombardamenti; vedere i volti induriti di giovani vedove di guerra e ascoltare le loro parole piene di dolore; incontrare bambini che hanno perso il sorriso per il trauma della guerra; imbattersi in giovani e anche meno giovani mutilati (si calcola che a oggi siano circa 100mila in tutta l’Ucraina); vedere le distruzioni di case, di edifici nel cuore delle città; visitare i cimiteri, con centinaia, migliaia di tombe di soldati, di vite spezzate dal conflitto. La guerra è questo e anche molto altro. È una macchina che tritura la vita individuale e sociale nella sua totalità.
L’Ucraina è al buio, di una guerra che non pare trovare una via diplomatica per la sua soluzione, mentre sembra esserci spazio solo per continuare a combattere. È il buio di orizzonti di futuro chiusi dalla fitta cappa della guerra. In questo buio si può ascoltare il grido, a volte silenzioso, delle ucraine e degli ucraini, che dicono basta alla guerra e che vogliono la pace. Papa Leone si è fatto interprete del loro grido e di quello dei tanti popoli sofferenti per la guerra. Lo ha detto con vigore al Colosseo all’Incontro di Preghiera per la Pace nello Spirito di Assisi promosso da Sant’Egidio: «Il mondo ha sete di pace: ha bisogno di una vera e solida epoca di riconciliazione, che ponga fine alla prevaricazione… Basta guerre, con i loro dolorosi cumuli di morti, distruzioni, esuli!». E poi con maggior forza: «Non possiamo accettare… che ci si abitui alla guerra come compagna abituale della storia umana. Basta! È il grido dei poveri e il grido della terra. Basta!». Occorre guardare la guerra negli occhi. Cioè occorre guardare la guerra negli occhi di chi la vive, la subisce. La guerra non è, in primis, diletto per pungenti discussioni da remoto o per polemiche da protagonismo mediatico e politico, bensì vissuto drammatico di persone, di inermi, spesso disprezzati e tuttavia prime vittime della violenza bellica. Chi guarda negli occhi le vittime e ascolta le loro voci non può non unirsi a questo “Basta!”. C’è bisogno di una ribellione alla guerra e alla sua logica ferrea. Alla guerra che fa sprofondare nel buio, occorre rispondere accendendo luci. La solidarietà umanitaria è una di queste luci, sempre più necessaria. Nel contesto della guerra in Ucraina, di fronte alla condizione di sfibrante sofferenza della popolazione, l’impegno umanitario non è un’opzione filantropica. È una necessità ineludibile: un ucraino su tre ha bisogno di aiuto umanitario. Una necessità umana e sociale. È una necessità anche politica perché l’impegno umanitario in guerra è un investimento nella pace, è una pratica di pacificazione. L’impegno umanitario aiuta a realizzare spazi di pace, a liberare dalla violenza, dall’odio, dalla disumanità. Libera energie, accende luci per individuare vie di pace. L’Ucraina al buio chiede di non cedere alla logica della guerra, che nella propria escalation ha la sua ragione di essere. Chiede di continuare a percorrere itinerari di ricerca della pace. Vuole donne e uomini che pratichino l’arte del dialogo. Attende sforzi diplomatici e processi negoziali che accendano la luce della pace. Non è vero che diplomazia e guerra sono incompatibili, che quando sparano i cannoni si chiude ogni possibilità per l’azione diplomatica. In ogni guerra, anche nelle fasi più aspre di combattimento, c’è stato un lavorìo diplomatico alla ricerca di soluzioni. Nella guerra in Ucraina c’è ancora spazio per il negoziato, anche se può sembrare che occorra arrendersi al “realismo” della guerra. Consapevolezza realistica è invece abbandonare la insipiente alternativa: o guerra o diplomazia.
Nel buio dell’Ucraina, impegno umanitario, negoziati, dialogo sono le luci che possono consentire di scorgere la pace e guardare al futuro con speranza. C’è bisogno dell’umanità in tempi bui, come scriveva Hannah Arendt.