Apparentemente contraddittorie, le opere di Jeff Koons condividono tutte lo stesso seducente ottimismo edonistico, che esalta i suoi sostenitori e irrita i detrattori. E che lui sancisce dicendo di “credere fortemente nel desiderio, nel piacere delle cose, nella voglia di trascendenza e nel godersi la vita”. Dai coniglietti colorati ai fiori gonfiabili di fine anni 70, convertiti in inalterabili sculture in metallo smaltato a metà anni 80, alla serie di opere porno realizzate nei 90 con l’allora consorte Cicciolina. Fino al gigantesco puppy di yorkshire fiorito messo a guardia del Guggenheim Bilbao nel 1997, per arrivare al recentissimo Sleeping Hermaprodite, riproduzione di una sensualissima statua romana punteggiata di sfere specchianti. L’elenco della produzione di Koons, che attraversa ormai mezzo secolo, potrebbe continuare a lungo, oscillando tra licenziosità e innocenza. Lo abbiamo incontrato a Milano, in esclusiva per U.

Sopra (Sleeping Hermaphrodite) Gazing Balls (2025). Oggi Koons è rappresentato da Gagosian, dopo 4 anni di separazione. ©Centre Pompidou-Metz/Marc Domage/2025/Exposition Copistes

Sopra (Sleeping Hermaphrodite) Gazing Balls (2025). Oggi Koons è rappresentato da Gagosian, dopo 4 anni di separazione. ©Centre Pompidou-Metz/Marc Domage/2025/Exposition Copistes 

CAROLINE CORBETTA: Quando ha capito di essere un artista: è stata un’illuminazione o un processo graduale?

JEFF KOONS: “Penso sia stato un lungo processo. Il mio primo ricordo risale a quando avevo circa tre anni e avevo fatto un disegno. I miei genitori, dandomi un buffetto sulla spalla, mi dissero che era davvero bello. Loro mi hanno sempre supportato. Ho iniziato a prendere lezioni private intorno ai 7 anni, credo, e alle superiori ho frequentato corsi d’arte. Quando è arrivato il momento di andare all’Università, l’unica cosa per cui ero veramente preparato era questo. E quello ho fatto. Nella prima lezione di storia dell’arte l’insegnante ci mostrò un’immagine dell’Olympia di Manet e io compresi come l’arte si può connettere alla filosofia, alla psicologia, alla fisica, al mondo intero. La mia vita è cambiata in quel momento: mi sentivo la persona più fortunata in quell’aula perché capivo che l’arte mi avrebbe permesso di evolvere come persona”.

CC: Ricorda la sua prima esposizione?

JK: “Ero solo un bambino: mio padre era un arredatore d’interni e aveva uno showroom con una grande vetrina su strada, dove talvolta esponeva anche le mie pitture e le vendeva. È stato lui il primo a sostenere il mio lavoro. Poi fu la dealer Ellen Sragrow a presentare una mia opera a New York. Credo fosse il 1979”.

CC: Mai pensato di smettere?

JK: “L’arte è uno stile di vita, una filosofia, una religione. Quando dico religione, intendo proprio un modo di comunicare con il mondo. L’arte è il più potente strumento di comunicazione che esista perché racchiude tutta la conoscenza umana, condensata in immagini, archetipi e metafore attraverso cui, da sempre, testimoniamo la nostra soggettività al mondo. Senza, non avremmo nemmeno il concetto di empatia. L’arte è un modo di vivere, di diventare: non ho mai pensato di smettere; piuttosto ho sempre desiderato di diventare un artista migliore, e quando dico migliore intendo che voglio condividere con gli altri i sentimenti, le emozioni e la conoscenza che genero per me stesso. In diverse fedi e filosofie diventa quasi una responsabilità e una vocazione suprema saper insegnare ed educare. Ed è naturale che quando si ha esperienza si sviluppi anche la generosità e il desiderio di condividerla: l’arte è un mezzo straordinario. Sarebbe difficile immaginare la vita senza”.

CC: Un condensato di conoscenza umana: è più o meno anche la definizione dell’intelligenza artificiale?

JK: “Jürgen Schmidhuber, il padre dell’Ai, un giorno mi ha chiesto: “Jeff, cos’è la creatività?”. Gli ho risposto che secondo me riguarda la connettività e la trascendenza. E lui mi ha risposto: “La creatività è la condensazione di informazioni”. Non ero d’accordo, ma poi ci ho ripensato e al risveglio, il giorno dopo, ho capito quanto fosse geniale. Quando crei un’opera d’arte in essa condensi tutta la tua esperienza di vita: quel biglietto di San Valentino che hai ricevuto a 14 anni, insieme ai ricordi dei tuoi genitori, a quando hai cavalcato per la prima volta o hai visto la tua prima opera d’arte in esposizione… Prendi tutto questo e lo trasformi in simboli e forme che possano comunicare in modo preciso con altre persone quante più informazioni possibili”.

CC: Lei è sempre molto elegante, gentile, educato. Ma c’è una combattività implicita nel suo patinatissimo lavoro che talvolta emerge. A proposito dell’opera-pubblicità realizzata per Artforum nell’88, affermò che era rivolta ai lettori della rivista: “Le persone che mi odiano e a cui voglio far digrignare i denti facendomi odiare ancora di più”. Questo tipo di affermazioni erano strategicamente provocatorie o mostravano il dark side del suo lavoro e della sua personalità?

JK: “All’epoca la galleria Sonnabend mi disse che per la mia mostra avrei potuto avere o un catalogo o delle pubblicità. Scelsi queste ultime. Ne ho create tre per altrettante riviste d’arte. Per Flash Art mi sono ritratto con un maiale, per definirmi tale prima che lo facesse chiunque altro. Volevo sminuirmi in modo da avere una sola direzione in cui proseguire, ovvero verso l’alto. Per Art Forum, la pubblicità che ha menzionato: sapevo che il loro pubblico era ostile al mio lavoro, così l’ho aggirato rivolgendomi ai giovanissimi. L’immagine è stata scattata in un asilo. E, attraverso frasi scritte sulla lavagna tipo “la banalità come salvezza”, insegnavo loro questa filosofia di auto-accettazione e rimozione del giudizio. Nella rivista Arts, che non esiste più, mi rappresentai come una sorta di Napoleone con due foche e delle corone di fiori al collo: erano gli unici soggetti che avevo, ma erano i miei soggetti, e io ero il loro leader. Leadership significa impegnarsi al massimo, e io volevo dare sempre il massimo: qualunque fossero i miei limiti, li accettavo e davo tutto quello che avevo. Tante persone, anche amici, venivano a New York, si discuteva di cosa la nostra generazione avrebbe voluto fare per l’arte, ma poi sparivano. Mentre io ero sempre lì. Ci sono così tante persone che non hanno opportunità, ma ci sono anche opportunità che non cogliamo. Dobbiamo imparare ad accettare noi stessi, i nostri limiti, cercando di vivere al meglio le nostre potenzialità”.

CC: Un consiglio ai giovani artisti?

JK: “Di fidarsi di loro stessi. Se rimuovi il giudizio, intanto ti fidi di te stesso e poi tutto è in grado di arrivarti e trasformarti. Amo il filosofo John Dewey che parla dell’arte come di un organismo unicellulare influenzato dall’ambiente che lo circonda ma che, a sua volta, ha un effetto su di esso: è uno scambio, una comunicazione. Tutto ciò che ci circonda è un’interazione continua tra l’ambiente e il nostro essere interiore”.