Sabato scorso, a Lugano, all’Università della Svizzera italiana (Usi) si è svolto un interessante convegno sul futuro della democrazia, nel quale chi scrive era l’unico ospite italiano. Adriano Cavadini, ex consigliere federale svizzero, autore del saggio Democrazia e libertà, ha difeso il sistema politico della confederazione pur non nascondendosi la crisi della partecipazione giovanile.
Ha ricordato che dal 1848 il popolo svizzero è stato chiamato a votare 800 volte. Ha difeso ovviamente, come tutti i partecipanti alla tavola rotonda moderata da Reto Ceschi, la democrazia diretta elvetica. Un sistema che pone ai cittadini quesiti (per esempio in materia fiscale) che la nostra Costituzione esclude. Le
democrazie complete, tra cui ovviamente Berna, sono state enumerate – sulla base del Democracy index dell’Economist – e sono 25 in tutto il mondo. Tra queste non c’è l’Italia che fa parte del gruppo di quelle imperfette (insieme agli Stati Uniti)
. I regimi autoritari sono 60, quelli cosiddetti ibridi 36. Questi ultimi in crescita in tutto il mondo. Nelle democrazie, perfette o meno, nella seconda metà del secolo scorso viveva più del 50 per cento della popolazione mondiale. Oggi la stragrande maggioranza degli abitanti della Terra è sotto regimi autoritari o ibridi. La globalizzazione ha visto l’affermazione dell’economia del mercato ma non delle istituzioni democratiche che nessuno ambisce ad esportare (guerra in Iraq del 2003). L’ospite italiano non ci sta ad essere nella categoria delle democrazie imperfette. E si difende. Ma comunque c’è uno spread, una differenza, parola maledetta, frutto anche di troppi pregiudizi, ma che forse ci dovrebbe indurre a difendere di più la divisione dei poteri, l’indipendenza di magistrati e giornalisti, l’importanza delle authority indipendenti. 
Quello spread ci interessa o in nome della preziosa e ritrovata stabilità di governo ne facciamo a meno?



















































17 novembre 2025