di
Francesco Bertolino

La startup di ChatGpt è il centro di una rete di accordi tra aziende tech dove non esistono confini fra investitori e creditori. Il rischio di una corsa allo sportello se dovesse scoppiare la bolla IA

OpenAI è già «too big to fail», troppo grande per fallire? Sul successo della startup di ChatGpt si gioca una scommessa del valore di migliaia di miliardi che coinvolge giganti tecnologici, banche, fondi, milioni di risparmiatori e, forse, anche il governo americano.

Il boom di ChatGpt

Fondata nel 2015, OpenAI è uscita dal cono d’ombra delle startup nel 2022. Con il lancio di ChatGpt, ha bruciato sul tempo le altre società al lavoro sull’intelligenza artificiale: il chatbot ha raggiunto un milione di utenti in cinque giorni e poi 100 milioni in due mesi. Rendendo l’Ai un fenomeno di massa e il suo fondatore, Sam Altman, l’araldo di una nuova rivoluzione industriale. Da allora OpenAI ha iniziato a ragionare in miliardi, costruendo una fitta rete di accordi per alimentare la sua ambizione di portare l’Ai nelle case e negli uffici. L’intelligenza artificiale ha bisogno di potenza di calcolo? Ecco gli accordi con i giganti del cloud Microsoft, Oracle e CoreWeave. I data center devono essere riempiti di chip all’avanguardia? Saranno Nvidia e Amd, il meglio che c’è, a fornirli ad OpenAI.



















































Gli impegni di spesa

Nel giro di pochi mesi — e, perlopiù, senza l’aiuto di consulenti — la startup ha assunto impegni di spesa per 1400 miliardi di dollari nei prossimi otto anni, una somma superiore al prodotto interno lordo della Turchia. Riuscirà a onorarli? Altman non pare preoccupato dalla mole di promesse da mantenere. «Credo che il rischio per OpenAI di non avere abbastanza potenza computazionale sia superiore al pericolo di averne in eccesso», ha detto il 40enne imprenditore. OpenAI ha così preso a comunicare il valore dei suoi accordi in potenze elettrica e non più in dollari: 10 gigawatt da Nvidia, 6 gigawatt da Amd, 45 gigawatt da Oracle. Quasi che il denaro nell’era dei dati non fosse più in grado di misurare il valore di un contratto.

I numeri di OpenAI

Riservatamente, però, OpenAI ha dato ai suoi investitori i numeri, attuali e prospettici. Secondo documenti ottenuti dal Wall Street Journal, la startup stima di «bruciare» denaro per almeno altri cinque anni, arrivando a perdere 74 miliardi nel 2028. Il primo utile dovrebbe arrivare nel 2030, quando OpenAI prevede di toccare 200 miliardi di ricavi. Di qui ad allora, quindi, la sua sopravvivenza dipenderà dalla sua capacità di raccogliere soldi per coprire costi e perdite. E ne serviranno tanti. Sul mercato, non a caso, già si parla di una prossima quotazione a Wall Street della società — forse già nella seconda metà del 2026, al più tardi nel 2027 — con una valutazione attesa superiore ai 1000 miliardi di dollari (doppia rispetto all’attuale). Per un confronto, Google debuttò nel 2004 a 23 miliardi, Nvidia nel 2009 a 1,5 miliardi (oggi ne vale 4500).

Se qualcosa va storto

Impegni di spesa e valutazioni «trilionarie» poggiano sulla tesi che l’Ai cambierà non solo il modo di produrre delle imprese, ma anche le abitudini di vita delle persone. E che OpenAI sarà alla testa di questa rivoluzione, riuscendo per prima a sviluppare l’intelligenza artificiale generale, capace cioè di risolvere problemi di livello umano. In un acronimo, l’Agi: il nuovo Sacro Graal della Silicon Valley. E se qualcosa dovesse andare storto? Se l’adozione dell’Ai andasse a rilento? O se OpenAi fosse sopravanzata da concorrenti come Gemini di Google, Anthropic o Perplexity? «Se sbagliamo e non riusciamo a risolvere il problema, è giusto che falliamo: è così che funziona il capitalismo, l’economia continuerà a prosperare anche senza di noi», ha chiarito Altman qualche giorno fa dopo che la direttrice finanziaria, Sarah Friar, aveva alluso alla necessità di un «paracadute pubblico» per gli investimenti multimiliardari di OpenAI su chip, data center e infrastrutture.

«Too big to fail»?

Anche se OpenAI non dovesse chiederlo, però, il governo americano potrebbe essere comunque costretto a salvare la startup, se qualcosa dovesse andare storto. Altman e la sua creatura sono infatti diventati il centro di gravità dell’intero ecosistema dell’Ai, all’interno del quale non sono più chiari i confini fra fornitore, cliente, investitore e creditore. OpenAI si è per esempio impegnata a pagare 300 miliardi nei prossimi cinque anni per i data center di Oracle e 10 gigawatt di chip da Nvidia. Quest’ultima, in cambio, ha annunciato un investimento da 100 miliardi nel capitale di OpenAI ed è diventata azionista di CoreWeave che, a sua volta, ha un contratto da 22 miliardi per la fornitura di cloud alla startup di Altman. Microsoft è poi azionista di OpenAI, suo fornitore di cloud e, allo stesso tempo, cliente di ChatGpt, con cui vige un meccanismo di condivisione dei ricavi.

Il rally di Borsa

È difficile per gli investitori orientarsi in questo dedalo di accordi, ha notato un’analisi di Morgan Stanley dedicata a «mappare la circolarità dell’Ai». Una nuvola di intese simile a quella di OpenAI circonda infatti anche le altre startup dell’Ia come Anthropic, Mistral e Perplexity. Si tratta di collaborazioni virtuose fra campioni tecnologici che si preparano a cogliere un’opportunità economica epocale? Oppure l’andirivieni di capitali da un’azienda all’altra serve a gonfiare artificialmente l’entusiasmo per l’Ai?
A lungo il mercato ha sposato la tesi di Altman e portato alle stelle tutti i titoli legati alI’intelligenza artificiale. Nvidia ha toccato i 5000 miliardi di capitalizzazione. Larry Ellison è diventato per qualche tempo l’uomo più ricco del mondo grazie al rialzo dell’81% di Oracle a Wall Street. Le cinque maggiori big tech Usa sono arrivate a rappresentare il 16% della capitalizzazione di Borsa mondiale, una concentrazione senza precedenti.

Ottimisti e pessimisti

Nelle ultime settimane, però, qualche dubbio ha iniziato ad affiorare. È emerso, per esempio, che due terzi dei ricavi futuri di Oracle dipendono da contratti con OpenAI. Big tech come Meta e Google hanno poi avviato mega-emissioni di debito da decine di miliardi per finanziare i loro piani sui data center. Qualche super-manager — Jeff Bezos di Amazon, Jamie Dimon di Jp Morgan e lo stesso Altman — ha infine ventilato l’ipotesi che l’IA sia in una bolla, ma «buona» perché dal suo scoppio emergeranno i campioni industriali di domani. Altri sono meno ottimisti. «Alla fine sono sempre i ritorni sugli investimenti a guidare i mercati e le attuali startup Ai non stanno generando profitti sufficienti a giustificare le loro altissime valutazioni», ha avvertito Gary Marcus, professore emerito della New York University. «Nessuno sa quando esploderà la bolla, ma alla fine succederà» e allora «potrebbe scatenarsi una sorta di corsa allo sportello». Sarà OpenAI a scatenarla?

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18 novembre 2025