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Il 6 novembre scorso il Senato aveva concordato un calendario dei lavori che prevedeva l’approvazione della legge di bilancio in prima lettura entro il 18 dicembre. Era già una soluzione di ripiego, per certi versi, visto che la prima indicazione arrivata dal governo era di inviare il testo alla Camera, per l’approvazione definitiva, non oltre il 15. Ma anche con 3 giorni di tempo in più, il piano appariva ambizioso, tanto che il ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani, di Fratelli d’Italia, aveva espresso qualche dubbio. E in effetti ormai è abbastanza scontato che neppure per il 18 dicembre si riuscirà a farcela.
Di per sé la cosa non è gravissima. Il parlamento ha tempo fino al 31 dicembre per approvare la legge di bilancio per il 2026, dopodiché scatterebbe il cosiddetto esercizio provvisorio, con tutta una serie di complicazioni tecniche e di limiti sulla spesa pubblica. Ma non è uno scenario plausibile, perché, come ormai da quasi un decennio a questa parte, la legge di bilancio verrà discussa da una sola delle camere (quest’anno, secondo una logica di alternanza, sarà il Senato), mentre l’altra si limiterà a un voto di ratifica dopo una discussione di appena qualche ora. Il punto, semmai, è che Giorgia Meloni voleva evitare il ripetersi di questa prassi non esattamente virtuosa, che genera sempre grosse polemiche e una significativa confusione. Invece anche stavolta andrà così.
È del resto il terzo anno consecutivo che Meloni prova a escogitare dei metodi alternativi per ottenere un’approvazione più celere e ordinata della manovra, con l’obiettivo di dare un segnale di efficienza a investitori e mercati finanziari. Nel 2023, il governo sancì in modo del tutto inusuale che la legge di bilancio dovesse rimanere così com’era stata approvata dal Consiglio dei ministri, ma la cosa generò enormi malumori nei partiti, che alla fine ottennero che il governo accogliesse alcune proposte: e le tensioni accumulate si scaricarono tutte nell’ultima settimana utile, sovraccaricando il ministero dell’Economia. L’anno scorso, il governo ne provò un’altra: lasciò discutere i deputati sulle possibili correzioni da approvare, ma al dunque fu il governo stesso a imporre delle modifiche che di fatto riscrissero in larga parte la manovra, costringendo poi la Camera ad approvare un testo parecchio diverso rispetto a quello inutilmente discusso per settimane.
Quest’anno, infine, si è tornati a seguire un iter ordinario, che però si sta rivelando ordinariamente complicato, come già per altri governi nel recente passato. Venerdì scorso, nell’ultimo giorno utile, sono stati depositati quasi 6.000 emendamenti; il solo centrodestra ne ha presentati 1.600, che è un numero abbastanza alto trattandosi di partiti di maggioranza, e la cosa è stata subito sottolineata in tono critico dalle opposizioni. Solo i vari ministri hanno preparato un’ottantina di emendamenti, cosa che ha infastidito il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e Meloni stessa, la quale ha infine imposto un limite di non più di un emendamento a ministero (limite che comunque difficilmente verrà rispettato in modo categorico da tutti i membri del governo).

Il ministro per i Rapporti col parlamento, Luca Ciriani, alla Camera, 17 settembre 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
In linea teorica un così alto numero di emendamenti sta a dimostrare come anche gli stessi partiti di maggioranza abbiano apprezzato poco la legge di bilancio votata dai loro leader in Consiglio dei ministri. La realtà, però, è più sfumata. Solo una parte degli emendamenti, infatti, è concordata con il governo, che si è accorto dell’opportunità di migliorare il testo – togliendo alcune misure, ridimensionandone altre, e inserendone di nuove di solito non molto impattanti sulla finanza pubblica – e che lascia ai singoli senatori la possibilità di intestarsi delle battaglie condivise. La maggior parte delle proposte, invece, è frutto dell’iniziativa dei singoli senatori, che si fanno portatori di interessi particolari che riguardano i loro territori o le loro categorie di riferimento.
In passato questa pratica, nota nel gergo politico come «assalto alla diligenza», aveva proporzioni molto più ampie. Da qualche anno invece il governo tende a concedere molti meno soldi per queste iniziative, che dunque hanno scarsissima possibilità di essere approvate. Quest’anno, per esempio, Giorgetti ha messo a disposizione del parlamento soltanto 100 milioni: 65 a beneficio della maggioranza, 35 per le opposizioni (anche se quasi sempre il ministero dell’Economia tende a essere molto conservativo all’inizio, poi concede qualche margine in più, specie per le proposte della maggioranza). Ciononostante, pur sapendo di avere pochissime probabilità di successo, i parlamentari presentano lo stesso i loro emendamenti, così da poterlo rivendicare sui social o tramite le agenzie di stampa: vogliono far vedere al proprio elettorato che loro, quantomeno, ci hanno provato.
Tanto più in una contingenza come quella attuale, in cui la legge di bilancio viene approvata durante una campagna elettorale per le regionali. Ecco allora che i partiti ci tengono a dare visibilità non solo a singole misure, ma anche a battaglie identitarie che con la legge di bilancio hanno poco a che fare, o che comunque avrebbero impatti economici insostenibili. Si spiega così anche il fatto che la Lega, nei giorni scorsi, abbia provato a convincere gli alleati di Forza Italia e di Fratelli d’Italia a posticipare di una settimana quell’operazione di grossa scrematura che sempre si fa per ridurre in modo significativo gli emendamenti: dal punto di vista di Matteo Salvini, aveva senso tenere almeno virtualmente in ballo delle proposte dal valore puramente simbolico ancora fino alla prossima settimana, dopo cioè che si sarà votato in Veneto, in Campania e in Puglia.
Il governo però non ha accolto la richiesta, che avrebbe ulteriormente dilatato i tempi. Così da martedì la commissione Bilancio del Senato ha iniziato a lavorare, definendo una lista assai più ristretta, quella dei cosiddetti “segnalati”, ovvero gli emendamenti che i vari partiti ritengono effettivamente importanti e che dunque segnalano, appunto. L’accordo, per ora, prevede di non andare oltre i 400 emendamenti complessivi, dei circa 6.000 inizialmente depositati, con una ripartizione per gruppo già definita in proporzione alla rispettiva consistenza numerica, ma con un occhio di riguardo per i partiti più piccoli (123 per Fratelli d’Italia, 70 per il Partito Democratico, 57 per la Lega, e così via, fino ai 14 del gruppo delle Autonomie). Quasi sicuramente non basterà neppure questo, e nei prossimi giorni si dovrà ridurre ulteriormente (c’è un nome anche per questa categoria di emendamenti, i “super-segnalati”), benché finora i capigruppo di maggioranza stiano evitando di dirlo.
Come spesso accade, anche stavolta questa scrematura sta provocando baruffe nella maggioranza, con accuse e rinfacci reciproci. Perché far decadere alcune proposte della Lega e conservare invece quelle, analoghe, di Fratelli d’Italia? E perché, se Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno depositato emendamenti simili sulle stesse materie, ora quelli che restano se li intesta uno solo dei due partiti? E come mai il ministero dell’Economia, guarda caso guidato dal leghista Giorgetti, ha garantito la copertura finanziaria per alcune proposte presentate in ritardo dai senatori della Lega, mentre ancora non esprime dei pareri su quelle presentate giorni prima da Forza Italia? Il tono delle discussioni è un po’ questo.
Non sembrano in ogni caso tensioni che possano degenerare. Semmai questa conflittualità contribuirà a rallentare un po’ i lavori. E anche quest’anno, con ogni probabilità, si finirà con l’approvare la legge di bilancio in seconda lettura a ridosso di Natale, o anche qualche giorno dopo.