I sistemi automatici sono entrati nelle sale chirurgiche circa quarant’anni fa e adesso si comincia a ragionale su nuovi livelli di autonomia della macchina per operare il paziente

Quando pensiamo ai robot ci viene automatico immaginare automi dalle fattezze umane, veri e propri androidi che si muovono e parlano come noi. D’altronde così li aveva immaginati per primo l’autore Karel Čapek in un’opera teatrale, dove per la prima volta compare la parola “robot”. In origine di questo termine, infatti, in lingua ceca significa “lavoro forzato”. I robot dunque sono gli operai d’inizio Novecento che svolgono lavori usuranti al posto degli esseri umani.
Nella realtà di tutti i giorni, nella nostra contemporaneità tecnologica, abbiamo scoperto che i robot servono anche per migliorare la precisione. In particolare nelle sale chirurgiche, dove ormai sono diffusissimi, per aumentare con la tecnologia le capacità dei chirurgi e dei team in sala. 
A farne le spese, però, è la forma umanoide, che è poco pratica ed efficiente per lavori di precisione in un ambito così delicato.

Nel quarto episodio di «AI nostri giorni», il podcast del Corriere della Sera dedicato a scoprire cosa si nasconde dietro la tecnologia che usiamo ogni giorno, insieme alla professoressa Elena De Momi —  professoressa di bioingegneria del Politecnico di Milano — si verrà raccontato proprio come funzionano i robot chirurgici e quali gradi di autonomia hanno oggi. O che avranno in futuro. 



















































18 novembre 2025