La percezione che gli anni scorrano sempre più in fretta è uno dei cambiamenti più comuni dell’invecchiamento, un fenomeno che quasi tutti sperimentano ma che la scienza ha sempre fatto fatica a spiegare. Una ricerca pubblicata su Communications Biology propone ora una possibile risposta: con il passare del tempo il cervello tenderebbe a elaborare meno eventi, restando più a lungo nello stesso stato neurale e dando così la sensazione che le giornate si contraggano. Questa “perdita di definizione” nella percezione degli stimoli, legata a un processo noto come de-differenziazione neurale, potrebbe essere il motivo per cui a 70 anni un anno sembra passare più rapidamente che a 20.

Cosa accade nel cervello quando invecchiamo e perché percepiamo meno eventi: la nuova idea sulla “risoluzione mentale” e sugli stati neurali più lenti

La ricerca si concentra su un aspetto ancora poco studiato della percezione temporale: non ciò che accade fuori da noi, ma il modo in cui il cervello suddivide ciò che vede in unità separate. Gli scienziati hanno coinvolto 577 persone tra i 18 e gli 88 anni, sottoponendole a risonanza magnetica funzionale mentre guardavano un episodio di otto minuti della serie Alfred Hitchcock presenta. L’obiettivo era misurare quanti “cambiamenti di stato” avvenissero nelle loro reti neurali, cioè quante volte il cervello riconosceva l’inizio di un nuovo evento. Mentre i partecipanti più giovani mostravano un’attività cerebrale molto dinamica, con transizioni frequenti tra stati diversi, gli anziani restavano più a lungo nella stessa configurazione neurale, come se cogliessero meno cambiamenti narrativi all’interno dello stesso intervallo.

Gli autori spiegano che il fenomeno ricorda la differenza tra un video in alta definizione e uno con pochi fotogrammi: meno “frame mentali” portano a una percezione del tempo più compressa, come se gli episodi della giornata fossero meno numerosi e meno distinti tra loro. Questo rallentamento sarebbe legato alla de-differenziazione neurale, un processo naturale dell’invecchiamento in cui le aree cerebrali diventano meno specializzate. Ne è un esempio l’attivazione dei neuroni che riconoscono i volti anche in presenza di oggetti, oppure la difficoltà a distinguere due stimoli simili. Con l’età i neuroni perdono precisione e finiscono per “generalizzare” di più. Applicato al tempo, significa registrare meno cambiamenti, meno micro-eventi, meno passaggi interni.

La sensazione che “le giornate volino” potrebbe quindi essere la conseguenza diretta di un cervello che aggiorna meno spesso i propri stati mentali. Gli autori parlano di tempi di permanenza più lunghi negli stessi pattern di attività, un fenomeno che modifica il ritmo interno con cui percepiamo la realtà. Non cambia il tempo reale, cambia la frequenza con cui la nostra mente “scatta fotografie” degli eventi. E più queste fotografie diminuiscono, più un mese intero può sembrare evaporare senza che ce ne accorgiamo. È un effetto che tocca memoria, attenzione, velocità di elaborazione e capacità di distinguere l’inizio e la fine di un episodio. La percezione del tempo diventa così un riflesso della nostra fisiologia neurale, non un’impressione vaga o un semplice cliché sull’invecchiamento.

Come rallentare la sensazione di tempo che accelera: il ruolo delle novità, dell’attenzione e delle esperienze che aumentano le informazioni elaborate

Se il tempo percepito dipende dal numero di eventi che il cervello distingue, una via per contrastarne la sensazione di accelerazione può arrivare dalla quantità di stimoli nuovi che introduciamo nella vita quotidiana. Lo spiega Steve Taylor, autore di Time Expansion Experiences, secondo cui il cervello rallenta il tempo soggettivo quando deve elaborare più informazioni, perché ogni esperienza nuova richiede uno sforzo cognitivo maggiore e genera più “marcatori” interni. Viaggiare, imparare un’attività mai praticata prima, incontrare persone nuove o cambiare le routine abituali può aumentare la densità degli eventi percepiti, allargando la nostra memoria del tempo. Non è un trucco psicologico, ma il risultato fisiologico del fatto che la mente lavora di più e registra più transizioni tra stati neurali.

L’altro elemento è l’attenzione consapevole. La neuroscienza suggerisce che quando viviamo in modalità automatica, passando da un impegno all’altro senza soffermarci su ciò che stiamo facendo, il cervello produce pochi “momenti distinti”, come se la giornata scorresse in un’unica lunga scena. Prestare attenzione ai dettagli — un sapore, un paesaggio, un rumore, la sensazione di un gesto quotidiano — incrementa il numero di informazioni elaborabili e aumenta la frammentazione degli eventi. È il motivo per cui alcuni momenti vissuti con forte intensità, anche se brevi, restano impressi come molto più lunghi di quanto siano stati realmente.

Questo spiega anche perché l’infanzia sembra durare di più: ogni esperienza è nuova, ogni oggetto è qualcosa da esplorare, ogni ambiente genera un sovraccarico di stimoli che dilata il tempo percepito. Con l’età, aumentando la familiarità del mondo, diminuisce la quantità di novità che il cervello deve elaborare. Il tempo quindi “scivola”. Non perché va più veloce, ma perché la mente lo frammenta meno.

Introdurre attività nuove e recuperare un’attenzione più presente non elimina l’invecchiamento neurale, ma può alterare il modo in cui sperimentiamo il tempo. Ci sono persone che, cambiando abitudini, riferiscono di percepire le giornate più lunghe o gli anni più ricchi, come se il ritmo interiore si fosse riallineato. Questo non è un controllo del tempo, ma una modulazione della percezione, un modo per ridare profondità ai momenti e contrastare la sensazione che gli anni si compressano l’uno dentro l’altro. La scienza mostra che la mente può rallentare la sua esperienza del tempo quando smette di vivere in modalità automatica e ritorna a registrare il mondo in modo più vivido.