Dopo aver visto 40 secondi, capisci che da adesso in poi sarà molto difficile raccontare certe storie, prescindendo da questo film. Almeno in Italia. Il regista Vincenzo Alfieri trova, con cura e coraggio, un cinema che si richiama, in chiave personale e originale, alla cinematografia di Gus Van Sant. «Lo ammetto, il suo Elephant è un po’ il peccato originale», confessa lo sceneggiatore Giuseppe G. Stasi, che ha firmato il film con il regista. «Vincenzo cercava questo, ricreare la noia della provincia in cui le vite di tutti sono intersecate in una matassa inestricabile. La sua intuizione, a mio parere, di raccontarla con questo stile e questa prospettiva è stata la chiave della forza di questo film».

Un lavoro che sovverte l’impostazione del libro omonimo di Federica Angeli da cui è ispirato – «Anche se», interviene Alfieri, «è un libro-inchiesta che ci è servito per ricostruire al meglio la dinamica del reato». «Però è vero che inizia proprio con la descrizione della giornata tipo», ribadiscono entrambi, «come le attività criminose dei gemelli Bianchi che sono contemporanee allo stacco dal turno di notte di Willy».

40 secondi (presentato in concorso alla Festa di Roma, dove ha ricevuto il Premio speciale della giuria per il cast, e in uscita nelle sale il 19 novembre) non è cinema civile, non è quello sguardo giudicante e bidimensionale su un delitto insopportabile che altri avrebbero fatto. Prende un fatto dolorosamente accaduto e mai metabolizzato – nell’anteprima commovente e vibrante a Colleferro, qualche giorno fa, davanti a un pubblico squassato da quell’omicidio, forse ci si è riusciti per la prima volta – e racconta una comunità intera. In cui non ci sono gradi di separazione tra vittima e carnefici, in cui è un territorio intero ad essere avvelenato dalla violenza impastata all’indolenza, dal senso del possesso che diventa ossessione, dalla microcriminalità che è malattia cronica e degenerativa del vivere civile quotidiano. Non si raccontano i mostri, ma le sabbie mobili di comunità come ce ne sono troppe (per certi versi nelle immagini di questo film possiamo riconoscere il bellissimo libro di Daniele Vicari Emanuele nella battaglia) in questo Paese.

«Siamo due figli della provincia», continua lo sceneggiatore, «e conosciamo bene ciò che abbiamo raccontato. E poi tutti pensano ai tre protagonisti, gli assassini e la vittima, ma ci sono molte persone e avvenimenti collegati a quei 40 secondi. Soprattutto uscendo dalla cronaca, che peraltro ha fatto molti errori». «40 secondi sono quelli», riprende il regista nell’incontro al Linea d’Ombra Festival, «che ci hanno messo i gemelli Bianchi ad arrivare, uccidere quel ragazzo e andarsene. Willy non era un eroe, ma uno che ha fatto la cosa giusta perché per lui era naturale che fosse così. Volevamo strappare Willy al racconto che si è fatto di vittima sacrificale ed eroica per restituirlo alla vita, grazie a Justin De Vivo. Tornare con il cast a Colleferro per l’anteprima è stato forte: all’inizio ci sentivamo come lo straniero nel saloon, poi abbiamo sentito una forte commozione, come se finalmente si riuscisse ad affrontare quel dolore collettivo».

Il film, che con una grammatica radicalmente diversa, ma con uno spirito affine, segue il lavoro che la Eagle Pictures e Roberto Proia hanno iniziato con Il ragazzo dai pantaloni rosa (e infatti nelle proiezioni per le scuole si sono già raggiunti 25mila studenti) sul racconto di una generazione dimenticata finora dal cinema italiano, una generazione squassata dal bullismo come dal disagio violento. Senza soluzioni preconfezionate, ma indagando nelle verità scomode di «ragazzi, ce l’hanno raccontato gli amici di Willy», prosegue Stasi, «che vivevano spesso serate al limite tra Colleferro e Artena. Una movida avvelenata, come quella sera, dal catcalling che viene combattuto da uomini che non difendono la dignità femminile ma solo la propria possessività nei confronti del corpo femminile. Allora quella tragedia semplicemente accese una luce, non a caso ruppe l’omertà verso quella violenza endemica fino a quel momento sopportata. Tutti testimoniarono, in quella piazza».

E così il personaggio di Francesco Di Leva, l’uomo delle forze dell’ordine che decide di risolvere tutto non con la forza ma con la ragionevolezza, diventa la bussola morale del film. «Una sorta di Tommy Lee Jones in Non è un paese per vecchi», prosegue Stasi. «È uno che non riconosce più il suo posto, ma sa come evitare che una tragedia diventi una strage. Lui è l’esempio delle brave persone esasperate dalla violenza, dalla banalità del male, che conoscono bene ma a cui decidono di reagire».

Francesca Di Leva (al centro) in una scena del film. Foto: Eagle Pictures

Una scrittura scarna e visiva, la loro – «Ci ha aiutato essere due registi, abbiamo scritto solo scene che si possono girare» –, ma tesa e affilata, che ti inchioda alla poltrona. E alle tue responsabilità, perché nessuno può davvero sentirsi assolto in una vicenda così. «Noi amiamo molto la scrittura strutturata», osserva Alfieri, «ma questa volta abbiamo seguito singole frasi, intuizioni, emozioni, facendoci trascinare da ciò che scoprivamo e palleggiandoci di pancia e di cuore scene e dialoghi. Seguendo, anche in modo anti-narrativo – perché la vita è anti-narrativa – singoli personaggi, e dedicando a sei di loro un capitolo che ci consentisse più punti di vista».

Tutto nasce probabilmente da quando proprio il cineasta ha incontrato questa storia. «Il 2020 fu letteralmente invaso da notizie sul Covid e su Willy. Due cose che furono anche messe in relazione. Si parlò di rabbia giovane scaturita dalla clausura in casa. All’epoca, forse come tutti, mi domandai spesso perché fosse morto. Cosa era successo veramente? Quanto di vero ci stava dicendo la stampa? Chi era Willy?». Domande semplici, ma le uniche da fare, mentre i media davano tutt’altre risposte, e spesso sbagliate. Mentre si faceva facile e pelosa sociologia, c’era chi guardava oltre. «Quando mi è stato proposto di scrivere un film sulla sua morte, inizialmente ero reticente. Non capivo cosa mi potesse spingere. Quale sarebbe stato il mio punto di vista. In qualche modo, sembrava essere una storia quasi troppo semplice per il grande schermo, una storia di cui le persone sapevano già tutto. E non potevo essere più in errore. Perché questa storia parla soprattutto di ragazzi qualunque. Non è una storia criminale, ma di dolore. Una storia di persone come tutti noi. Da piccolo ho frequentato posti difficili, e conosco il valore terribile dell’inevitabilità. Un concetto che mi ha sempre tormentato. Anche nei miei film precedenti in qualche modo».

Ma la rivoluzione, quello che forse è stato il seme di questo viaggio cinematografico e antropologico, è un altro. «Qualcosa è cambiato dentro di me», continua Alfieri, «anche come autore, dopo essere diventato padre, cosa che mi ha fatto conoscere il valore dell’educazione e la paura della perdita. Studiando la vicenda ho capito che nessuno sa veramente cosa sia successo, e che tante cose sono state dette ma in pochi hanno colto l’anima di Willy e della vicenda. Quindi ecco di cosa ho voluto parlare: di ragazzi e delle loro fragilità che, per un terribile scherzo del destino, si incontrano e si intrecciano nell’arco di 24 ore in un crescendo di tensioni».

«Inoltre, essendo cresciuto con film come Ritorno dal nulla, Cristiana F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino e Elephant», prosegue, «ho imposto da subito a me stesso un taglio quasi documentaristico, un racconto visivamente scarno di velleità registiche, e una recitazione che fosse verità assoluta. Ecco perché era importante per me lo street casting, perché solo con persone vere avrei potuto raccontare una verità. Ci sono voluti molti mesi per trovare Willy e tanti altri ruoli, ma alla fine sono convinto di aver ottenuto ciò che cercavo. Ma ho scelto anche diversi attori-spalle ai provini, ed era inevitabile per me avere anche dei professionisti, attori che però riuscissero a rientrare in un registro vocale simile ai non-attori, per non creare differenze nello spettatore». Un cast non solo in stato di grazia, ma capace di amalgamarsi nonostante le diverse estrazioni sociali e artistiche. «Sono profondamente grato per la partecipazione e per l’amore per il progetto di talenti come Francesco Di Leva, Sergio Rubini, Francesco Gheghi, Maurizio Lombardi, Beatrice Puccilli e Chiara Celotto». E poi con emozione dice che «mi sento come se fossi all’opera prima, tante sono state le sfide e le scelte».

Vincenzo Alfieri sul set con Francesco Gheghi. Foto: Eagle Pictures

Willy Monteiro Duarte è morto nella notte del 5 settembre 2020, ma solo cinque anni dopo, in un film, ha trovato giustizia. Più che nel tribunale che ha consegnato ai suoi assassini solo un altro palcoscenico in cui sfogare la loro prepotenza criminale. Più della giustizia degli uomini ha potuto quella dell’arte, che ha saputo raccontare un Male annidato in giornate tutte uguali. Il Male che, con un accurato uso e studio del corpo, ha saputo restituire in tutto il suo squallore quotidiano, nella sua meschinità ben poco epica, nella sua vigliaccheria, un grande Francesco Gheghi. Giovanissimo e già autore di prove straordinarie (pensate a Mani nude di Mauro Mancini o a Familia di Francesco Costabile, il film scelto per rappresentare l’Italia ai prossimi Oscar), è tra i tanti che dovrebbero concorrere per importanti riconoscimenti in questo film, se il cinema italiano avrà abbastanza memoria nei prossimi mesi. «Non era facile prendersi un ruolo così, se uno pensa alla carriera», confessa. «Ma se pensi al percorso artistico che vuoi, allora non puoi avere dubbi. Vivo in una ricerca costante che mi faccia crescere come interprete, a livello attoriale ed estetico. Mi piace trasformarmi, lavorare sui costumi, sul fisico, sul trucco e parrucco, sui dettagli, come ho fatto in questo caso: il tic e la balbuzie in origine non esistevano. Non mi vergogno a dire che ho persino una dieta per ogni personaggio, perché siamo quello che mangiamo, e plasmare il fisico aiuta a costruire il personaggio. Mi diverte allontanarmi da me, anche quando si arriva in angoli così bui». E tornando alla scrittura, di cui abbiamo dibattuto con gli sceneggiatori, sottolinea come «il testo lavora sul corpo, ecco perché leggo e rileggo quasi ossessivamente lo script. Era ancora più necessario in questo caso, perché il film era scritto perfettamente e dovevamo essere perfetti anche noi per comunicare l’incomunicabilità sociale e generazionale che racconta drammaticamente quest’opera. Maurizio, il ragazzo che interpreto, la rappresenta in modo esemplare, per questo ho cercato dentro di me certe dinamiche che conosco, come Vincenzo. Sono dei Castelli, conosco certe periferie, certi automatismi».

40 secondi ha anche questo dentro. Non ti permette di rimanere terzo rispetto alla storia, che tu la stia raccontando o che tu la stia guardando. Sei dentro, te la senti addosso, ti riconosci. E per questo è un film così potente, implacabile, terribilmente bello.