Che bella la storia di Maria Barosso. Che meraviglia i suoi disegni degli scavi archeologici: sono esatti, asciutti, commoventi. Impressioni dal vivo, si intitola il catalogo che li raccoglie. Una perla. Dopo tanto silenzio, una vita all’ombra di uomini illustri come a tante donne è toccato, ben due mostre la celebrano ora, a Roma. Una alla centrale Montemartini, aperta fino a febbraio 2026. L’altra appena inaugurata, al complesso Capo di Bove in via Appia antica, fino ad aprile.
Maria Barosso (Torino, 1887 — Roma, 1960) è stata la prima donna italiana a essere nominata dalla Soprintendenza dell’allora Regno d’Italia, assunta ragazza grazie alla sua straordinaria dote nel disegno, capace di riprodurre come in foto, direi meglio che in foto, i lavori di scavo e i reperti che venivano alla luce.
Di lei si è fatto fatica a trovare una foto. Solo una, c’è: quella ovale sulla sua tomba al cimitero del Verano. Un bel viso lungo e scavato, naso imponente, occhi attenti e malinconici, capelli corti e ricci che a quel tempo segnalavano — diciamo così — una personalità controvento. Si dice che Giacomo Boni, l’archeologo che ha riscoperto il Foro Romano e il Palatino, vedendola abbia detto «Perbacco. Gens Giulia!», i caratteri della prima dinastia imperiale. Ma a parte questo, che è forse favola e poi chi se ne frega di cosa dice del tuo aspetto il tuo capo.
Si era diplomata a Torino all’Accademia albertina, in disegno. Insegna. A ventisei anni arriva a Roma per documentare gli scavi, a ventotto entra in ruolo come “disegnatore di seconda classe”, al maschile. È difatti la prima donna specialista in disegno e pittura di monumenti. Usa la tecnica dell’acquarello in maniera interpretativa ed è una virtuosa dell’incisione.
È il 1907. Si trasferisce a Roma con la madre. Mantiene con il suo lavoro entrambe. Non si è mai sposata. Vita complicata: segnata da due guerre mondiali, dal fascismo. «Studiai, lavorai sempre non cercando mai proventi». Strabiliante, il suo lavoro. Cercatela, se potete.