Da cantautore che non ha mai voluto salire in cattedra, ora mostra una voglia quasi feroce di cantare quei suoi personaggi spiazzanti, così spesso in bilico di fronte al vuoto. Così la quarta delle cinque date, tutte sold out, della capitale è un rito catartico collettivo in cui vecchi e nuovi brani si fondono in un’unica linea temporale

«Un lampo di luce più forte del sole / un colpo di tacco al rallentatore / dieci anni di noia e autocombustione / un giorno di pioggia in cui torna il sole / questo è quello che ci vuole tutto quello che ci vuole / un lampo di tuono un salto nel buio / un grande rimpianto un grande dolore».

Alle 20.30 di martedì 18 novembre l’Atlantico di Roma inizia a riempirsi per la quarta delle cinque date, tutte sold out, che segnano il ritorno live, dopo quasi 10 anni, de I cani di Niccolò Contessa. Una disciplinatissima fila per due si snoda fino alla spina. I volti sono giovani, pure troppo. Ma i 30-40enni hipster di Roma est dove sono? Tutti esauriti nelle prime tre date? «Perché io li ho scoperti a 15 e non a 25 anni», dice un “pariolino”, maglioncino firmato di lana pettinata sopra la camicia. I conti iniziano a tornare.

Al bancone del bar compare Michele Riondino perfettamente integrato nel contesto, senza nessuna smania di nascondersi agli sguardi. Poi iniziano a spuntare i primi cappellini di lana arrotolati, le barbe da hipster e qualche capello bianco: arrivano anche i quarantenni di Roma est. Quelli che leggono David Foster Wallace, quelli del lexotan e delle sedute di psicanalisi, degli «attacchi di panico» e delle «dipendenze» che «convinti di scappare dalla morte», sono «scappati dalla vita». Quelli dei concerti indie al Circolo degli artisti 2.0 – perché quello 1.0 a, piazza Vittorio, era tutto punk e rap –. quelli di cui tutto è già stato detto, scritto e letto.

I Cani in concerto, foto di Guseppe Maffia

La generazione raccontata da Niccolò Contessa, con una scrittura che nessuna e nessuno fino a ora ha saputo eguagliare per intensità e capacità di analisi, quella piegata dall’individualista refrain del «tu ce la puoi fare», che prima o poi si rompe, lasciando uscire insicurezza e ansia.

Venti minuti di base in loop e le luci spente lasciano il tempo a tutti di entrare e di accalcarsi sotto il palco, perché «sono dieci anni che lo aspetto». Poi partono le note di Io, prima traccia del nuovissimo Post mortem, l’album de I cani uscito a sorpresa ad aprile (per la 42 Records di Emiliano Colasanti) dopo nove anni di quasi totale silenzio, perché «pure a sparire ci si deve abituare».

Niente cappello, occhiali e baffi. Sempre magrissimo, pallido e le occhiaie da bravo nerd, sempre un po’ ripiegato su sé stesso, incapace di stare fermo. Anche quando si siede a quella tastiera dove c’è tutto il Niccolò Contessa, quello a cui piace capire come funzionano le cose, quello che sognava di realizzare videogiochi prima di laurearsi in matematica.

Lo spettacolo di luci lo illumina, ma non svela mai del tutto quel volto che ai tempi de Il sorprendente album d’esordio de I Cani, teneva nascosto – per troppa timidezza – in una busta di carta. Potresti incontrarlo per strada e non riconoscerlo. Il papà dell’indie diventato, suo malgrado, egli stesso hype, ha ancora le stigmate dell’antidivo. Del resto, è uscito con un album, tutto scritto in un solo anno, il 2024, senza annunciarlo. Lui che per primo ha sperimentato la forza dei social pubblicando su YouTube – «perché SoundCloud in Italia non lo sapeva usare nessuno» – i primi due brani de I Cani, ora i social non li usa proprio più, perché ha bisogno di uno spazio in cui restare solo.

I Cani in concerto, foto di Guseppe Maffia

Di interviste con la stampa non ne vuole neanche sentire parlare. Ma è capace di passare oltre due ore a rispondere alle domande dei fan sul canale Telegram, riuscendo a dribblare quelle dei giornalisti imbucati. Tranne quella sulla sua città natale. «Spoleto? Non ci ho mai vissuto, ma ci torno spesso».
Ma qualcosa è cambiato. Si sente dalla potenza, con cui intona «Chi mi ha dato una spinta? Chi mi ha fatto cadere?» e che si porta dietro per tutto il concerto. «Vi dispiace se ora facciamo un pezzo vecchio?». Sulle note di Come Vera Nabokov inizia la catarsi collettiva, forse per prima la sua.

«Oh, ma parla pure!», dicono due ragazze prima di prendersi per mano per arrivare sotto al palco. In realtà, Contessa parla poco, pochissimo. Però balla, sembra quasi pogare mentre si prende la scena, mangiandosi il palco. Una voce che mostra estensioni sonore che non erano state ancora toccate. I nuovi brani e quelli vecchi si prendono lo spazio in un flusso continuo, passato e presente scorrono su di una sola linea temporale.

I Cani in concerto, foto di Guseppe Maffia

Da cantautore che non ha mai voluto salire in cattedra, ora mostra una voglia quasi feroce di cantare quei suoi personaggi spiazzanti, così spesso in bilico di fronte al vuoto. Una potenza che si porta dietro anche quando si trasforma in delicatezza nei brani solo voce e tastiera o solo voce e chitarra come In una cosa stupida e nel fuori programma di 2033.

«C’è chi devi costringere a scendere dal palco e chi devi costringere a salirci. Io forse appartengo più alla seconda categoria», raccontava Niccolò Contessa a Daniele Tinti in una delle primissime puntate del podcast Tintoria, nel 2018. «Ecco, io non ho solo bisogno di sentire quelle emozioni, il rapporto con il pubblico. Per fare un album, per salire sul palco, ho bisogno di sentire l’esigenza molto forte di dover tirare fuori qualcosa che mi è maturato dentro».

E, quindi, eccolo ora, di nuovo sul palco, lanciandosi sulle note di Lexotan, nello stage diving che è già diventato rito. Così quello de I Cani più che un ritorno sembra essere un capitolo nuovo, con un Niccolò Contessa che, senza tradire se stesso, inizia a prendersi quello che è sempre stato suo. Insieme alla nostra «mediocre, inadeguata, felicità».

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