Quando Mark Kerr saliva sul ring non ce n’era per nessuno. La sua soverchiante volontà fisica, in funzione di un particolare talento nella violenza professionale, aveva fatto di lui un vero e proprio “muro” insormontabile, una sorta di macchina implacabile e rapida nell’esecuzione, nella sottomissione e nella ricerca di una crescita carrieristica che però doveva sempre e comunque misurarsi con la vita stessa e con ciò che era fuori dal contesto della lotta. The Smashing Machine si pone esattamente in questo modo al pubblico in sala, mostrando due lati, due facce di una persona che umana era, oltre alla leggenda e al lascito di cui ancora oggi permane l’eco nell’ambito delle arti marziali miste.

Presentato in anteprima all’ottantaduesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il primo settembre 2025, diretto da Benny Safdie e disponibile nei cinema italiani dal 19 novembre 2025, The Smashing Machine presenta l’ombra mastodontica di un mito sportivo, per poi scandagliarne le pieghe più profonde e personali, portando il proprio sguardo creativo anche altrove: la fama, la fame di vittoria e la determinazione a tenere insieme i pezzi privati di una vita in funzione del ring e di tutte le conseguenze del caso, anche intime (se siete alla ricerca di un altro film su lotta e dramma umano, fuori e dentro al ring, vi rimandiamo alla nostra recensione di The Iron Claw).

Oltre la gloria

C’è un punto, nella carriera di ogni campione, in cui la gloria smette di essere una meta e può diventare una prigione. The Smashing Machine racconta proprio quel momento: il confine sottile fra la grandezza sportiva e la fragilità umana. Dwayne “The Rock” Johnson interpreta Mark Kerr, figura leggendaria delle arti marziali miste, un colosso che ha conosciuto la luce brillante dei riflettori e il prezzo invisibile della fatica, della disciplina e del dolore. È la storia di un uomo che combatte non soltanto per vincere, ma per restare in piedi, anche quando il mondo intorno e dentro inizia a vacillare.

Attraverso un racconto costruito sul ritmo dell’adrenalina e sull’intimità del fallimento, The Smashing Machine scava nella doppia identità di un “eroe” dei tempi moderni: l’idolo che il pubblico acclama e l’uomo che, lontano dal ring, affronta i propri demoni. La regia di Safdie, poi, alterna la potenza coreografica e dolorosa degli incontri a un’osservazione lucida e cruda della solitudine che li precede e segue. Ogni sguardo, ogni ferita, ogni pausa diventa parte di una narrazione che non cerca di abbellire, ma di comprendere e di analizzare oltre la fisicità più palese.

A dare forma e corpo a questa parabola è un Dwayne Johnson inedito, che rinuncia al mito dell’invincibilità per restituire complessità e vulnerabilità a un personaggio realmente esistito, segnato da scelte estreme e da un incessante bisogno di riscatto. L’attore, noto per la fisicità monumentale e un particolare carisma da intrattenitore leggero, si confronta qui con quella che si potrebbe definire la sfida più ambiziosa della sua carriera: incarnare un uomo che non vuole smettere di combattere, neppure quando il suo corpo e la sua mente chiedono tregua.

Accanto a Johnson, Emily Blunt interpreta Dawn, la compagna che vive l’amore come un’altra forma di resistenza. Il loro legame, appassionato e instabile, diventa il secondo campo di battaglia su cui si gioca la partita della sopravvivenza emotiva di The Smashing Machine. La relazione tra i due è raccontata con una verità molto particolare e asciutta, fatta di slanci e crolli, di carezze e silenzi che pesano quanto i pugni sul ring. In questo equilibrio precario, il film trova la sua tensione più autentica, aggiungendo quella componente più fragile e imperfetta che arricchisce e scandaglia l’altro fuori dallo sport.

Inquadrare in modo distaccato

Pur approcciandosi a una storia vera e umanissima, The Smashing Machine riesce in qualche modo a mantenersi sempre distaccato nei confronti del materiale che tratta. Tutta l’umanità alla base del racconto per immagini viene sublimata e definita da una regia che sembra provenire dalla dimensione del documentario, con la telecamera in continuo movimento, come un occhio che guarda oltre le cose, le segue e indaga nell’ombra. La mano di Benny Safdie si fa sentire dall’inizio alla fine, in un gioco all’inseguimento in cui ci si avvicina ai protagonisti del racconto senza mai invaderne troppo i confini emotivi.

Attraverso questa esperienza del “punto di vista privilegiato”, lo spettatore in sala entra nell’intreccio senza lasciarsi condizionare del tutto. Viene preso per mano da un lavoro formale in continuo movimento, espressivo e tumultuoso tanto quanto le vicende al suo centro.

The Smashing Machine si prefigge l’obiettivo di raccontare la vita e le ombre dei suoi protagonisti e, nel fare ciò, si serve di una delle interpretazioni più intense e sfaccettate della carriera di un Dwayne “The Rock” Johnson qui rotto, spezzato e delicato oltre la stazza e la violenza sul ring. Con lui, una Emily Blunt che lascia il segno per intensità e complessità.

Così lo sport, in sé, diventa fin da subito un elemento cardine e un mezzo per portare altrove in The Smashing Machine. C’è comunque tantissima violenza, e le sequenze di lotta riescono a restituire il dolore di ogni impatto e reazione. Più che un semplice biopic sportivo, il film di Safdie, pur restando piuttosto in superficie per alcune cose, è un viaggio nel cuore di chi ha conosciuto la vittoria e ha dovuto pagarla con tutto il resto. È una riflessione sulla forza come condanna e sull’impossibilità, a volte, di uscire davvero dal ring. Un racconto che, pur nella sua potenza muscolare, resta intimo e umano, ricordandoci che anche le leggende, quando si spengono le luci, restano uomini in cerca di pace.