Mercoledì è uscito al cinema The Smashing Machine, film diretto da Benny Safdie e dedicato alla vita del lottatore di arti marziali miste statunitense Mark Kerr, interpretato da Dwayne “The Rock” Johnson. Era stato la sorpresa dell’ultima Mostra del cinema di Venezia, dove aveva ricevuto molti apprezzamenti soprattutto per via della convincente prova di The Rock, a cui è stata assegnata una parte diversa rispetto a quelle cui è generalmente associato: meno “da duro” e più intimista e drammatica.

Il merito è anche dei molti spunti offerti dal personaggio che interpreta, la cui vita è stata in effetti molto travagliata. Verso la fine degli anni Novanta Kerr diventò uno dei lottatori più famosi al mondo. Fu uno dei pionieri delle arti marziali miste (meglio note come MMA, Mixed Martial Arts) in un periodo in cui questa disciplina era ancora poco conosciuta.

Ma la notorietà di Kerr andò ben al di là della nicchia degli sport da combattimento, anche per via dei suoi moltissimi eccessi: durante la sua carriera abusò di antidolorifici, cocaina, alcol e steroidi anabolizzanti, e i suoi problemi di dipendenza diventarono proverbiali nell’ambiente. E a un certo punto decise di parlarne pubblicamente.

Tra il 1997 e il 1998 Kerr lottò negli Stati Uniti per la UFC (Ultimate Fighting Championship), la lega più famosa al mondo, e successivamente in Giappone per la Pride, ai tempi sua diretta concorrente. Prima di allora aveva avuto un passato importante come atleta universitario nella lotta libera e una breve ma dominante esperienza nel vale tudo, uno sport da combattimento a mani nude e a contatto pieno diffuso in Brasile, per alcuni versi una sorta di disciplina antesignana delle MMA.

In quei contesti Kerr si distinse per uno stile di combattimento aggressivo e brutale, caratterizzato dalla sua eccezionale abilità nella lotta libera e dalla centralità che attribuiva al cosiddetto “ground and pound”, una strategia che consiste nel portare a terra l’avversario nel minor tempo possibile, riempirlo di colpi al volto e costringerlo alla resa. I telecronisti del tempo lo soprannominarono “Smashing Machine” (macchina distruttrice) per via della facilità con cui, soprattutto nei primi incontri, riusciva a sottomettere gli avversari.

Prima dell’uscita di The Smashing Machine, Kerr aveva ottenuto una grande popolarità grazie al documentario The Smashing Machine: The Life and Times of Extreme Fighter Mark Kerr, uscito nel 2002. Fu trasmesso su HBO, ricevette molti apprezzamenti dalla critica e consentì a migliaia di spettatori completamente ignari di conoscere lo stile di vita autodistruttivo di molti lottatori del periodo.

Negli anni Novanta la schedule (cioè la programmazione degli incontri) era molto fitta, e le cosiddette “borse” (ossia i compensi che vengono corrisposti ai lottatori per ogni incontro) avevano un valore imparagonabile a quelle odierne. Di conseguenza, per mantenersi era necessario garantire la propria presenza a tutti gli eventi organizzati dalla UFC, anche in caso di infortuni: il metodo più efficace per farlo era ricorrere agli antidolorifici, che in quegli anni ebbero una diffusione enorme nel mondo degli sport da combattimento. Nel documentario Kerr parlò apertamente della sua dipendenza: fu uno dei primi lottatori a denunciare quella condizione, mostrando una fragilità inaspettata per un lottatore così temuto.

In una recente intervista data al Time, Kerr ha raccontato che gli antidolorifici finirono per condizionare le sue giornate e anche la relazione con la sua compagna Dawn Staples, che nel film è interpretata da Emily Blunt: «Non avevo tempo di stare fermo per tre settimane per guarire. Era una soluzione facile sul momento, ma molto complessa da gestire nel lungo termine».

La carriera di Kerr in UFC fu breve, ma assolutamente dominante: disputò il primo incontro nel luglio del 1997, dopo aver ottenuto una striscia di tre vittorie consecutive nella vale tudo brasiliana, sconfiggendo per knockout l’israeliano Moti Horenstein. In UFC disputò soltanto altri tre incontri, ma fece in tempo a vincere la cintura dei pesi massimi sconfiggendo il connazionale Dwayne Cason nell’ottobre dell’anno successivo.

Nel 1998 lasciò la UFC per la giapponese Pride, che gli garantì uno stipendio molto più alto. Cominciò alla grande vincendo sei incontri consecutivi, poi le sue condizioni fisiche cominciarono a calare, e anche la sua importanza come lottatore. Lasciò la Pride nel 2004, ma nei cinque anni successivi continuò a combattere per federazioni minori, con risultati perlopiù disastrosi.

Secondo le testimonianze di chi l’ha conosciuto, Kerr fu una personalità singolare anche perché il suo modo di comportarsi cambiava molto a seconda delle circostanze. Quando combatteva era competitivo, cattivo e spietato, ma durante le interviste o nelle interazioni col pubblico si mostrava posato, premuroso e gentile.

Il suo allenatore Bas Rutten, ex campione UFC, ha detto a Sports Illustrated che Kerr «era un vero animale dentro il ring e un vero gentiluomo fuori. Sapevamo che aveva grandi qualità ma che, una volta entrato nella gabbia, sarebbe semplicemente andato su tutte le furie». Secondo John Hyams, il regista del documentario trasmesso da HBO, Kerr «non amava far del male alle persone, ma era molto bravo a farlo».

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