di
Pierluigi Panza

«Riccardo Muti Italian Opera Academy» è il percorso formativo per giovani musicisti condotto dal Maestro, quest’anno dedicato al «Don Giovanni» di Mozart

Allusivo quando si accarezza i bei capelli argentei («Oggi i direttori sembrano fare i clown, io sono napoletano, se voglio farlo batto tutti»); refrattario al politically correct («La storia va mantenuta»), dapontiano doc. («Sono troppo vicino alle musiciste, poi dicono che il maestro…»), autoironico nella crociata antiglobal, latino al 100%…

Ma con 23 lauree ad honorem e il passato carico di gloria, chi glielo fa fare di salire sul palco del Deposito della Fondazione Prada di Milano per celebrare, come un sacerdote in una cattedrale di cemento, una master class che è lezione, arringa e one man show?



















































Riccardo Muti, a 84 anni, possiede la forza tellurica per istruire, fino al 30 novembre, l’Orchestra Giovanile Cherubini, otto giovani cantanti, nove direttori e quattro maestri collaboratori («Figura quasi scomparsa»), selezionati da tutto il mondo, nell’edizione 2025 della «Riccardo Muti Italian Opera Academy», terza in Fondazione Prada.

In dieci giorni i giovani saranno guidati nell’esecuzione di un Don Giovanni… E se dieci vi sembran pochi sappiate che Mozart finì l’opera la sera prima del debutto (29 ottobre 1787) mentre Da Ponte scriveva tre libretti insieme (lo dice nelle sue inaffidabili memorie). Gli spettatori avranno la possibilità di assistere alle fasi di preparazione e realizzazione.

La Cherubini, che festeggia i vent’anni, ha visto passare 1.200 ragazzi che oggi suonano in orchestre: «È la cosa più importante che ho fatto nella vita. Alcuni hanno dovuto lasciare anche se avevano il massimo dei voti: lo Stato ha il dovere di dare loro un posto. Il nostro Paese è povero di orchestre, a Seul ce ne sono 22, qui le chiudono».

L’Italia è il Paese dell’opera e «per dirigere musica italiana devi conoscere la lingua. Io sono frutto della scuola italiana, la difendo. All’estero sento pronunce inadeguate e i critici tacciono. Verdi non è zumpapà: è suonato male. È scomparso il pianissimo: una volta von Karajan fece un pianissimo di venti minuti. Oggi basta l’acuto. Gli orchestrali, poi, vogliono essere chiamati professori d’orchestra, solo che non sanno cosa sia una scala intonata» (allusione?). 

Si comincia nella tragica modalità in re minore. Viola, violoncello, contrabbasso e fagotto «dovete continuare la nota». Poi si passa alla scena del commendatore, con i cantanti: «Il trombone segna un evento diabolico. Amo il contrabbasso, il suono va tenuto, le modulazioni, qui c’è dolore, si sente nel semitono… Siete troppo legati, devo sentire la paura, la discesa agli inferi. Il colore è scuro, altrimenti fa schifo. Qui i suoni vanno innalzati al cielo. Battuta 17 solo archi, poi entrano i timpani e spacca tutto…».

«La mia esperienza di Don Giovanni — racconta — nacque qui con Strehler, non credo che imparerei dai registi di oggi»: fu la prima della Scala del 1987. «Nella scuola toscaniniana il direttore era responsabile di tutto, va bene che ora uno si è pure messo una benda sugli occhi (allusione ad Alberto Veronesi nella Bohème). Con Strehler e Frigerio pareva un sogno».

Si riprende. «No arpeggio, stop stop qui si schiarisce il cielo: re do si la sol… battuta 113 fortissimo. Troppo aggressivi, sembrate zappatori. Non ciascuno per conto proprio, non suonate nota per nota, bisogna averle nella testa dalla prima all’ultima».

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20 novembre 2025