Condividi










Il problema dei documentari musicali di oggi è che, semplicemente, non hanno una storia forte alle spalle, sono prodotti promozionali, niente di più. Per questo ci si stupisce vedendo Nino. 18 giorni, il film su Nino D’Angelo – regia di Toni D’Angelo, il figlio più grande. I 18 giorni del titolo sono quelli che separano la sua nascita dal primo incontro con il padre, bloccato per quasi tre settimane a Palermo per dei concerti che gli erano esplosi tra le mani, e dunque è come se volesse recuperare quel tempo perduto – al cinema dal 20 novembre. Perché sì, dietro c’è una storia bella, avvincente e in parte ancora attuale, ma soprattutto perché quella stessa storia è sempre stata tra di noi, nascosta in piena vista. Come abbiamo fatto a non accorgercene prima?

Questione di pregiudizi

Del resto, D’Angelo è una star dai tempi del “casco d’oro”, fine anni Settanta, eppure erano in pochissimi – viene in mente solo Goffredo Fofi, che non a caso D’Angelo ha ricordato di recente, in occasione della sua morte – a prenderne sul serio musica e film, considerati troppo popolari, di bassa lega. Non solo dagli addetti ai lavori, ma anche dal grande pubblico che non era del Sud, prigioniero di pregiudizi verso un’artista che canta e incarna il Meridione, stra-famoso da Napoli in giù e detestato nel resto d’Italia (non fosse che registrava regolarmente il pienone anche lì, complici i tantissimi emigrati al Nord). Il figlio è ripartito da questo paradosso, seguendo il padre lungo il suo ultimo tour, quello che l’ha fatto riscoprire e santificare da tutto il paese, dandogli voce e tornando nei luoghi in cui è nato e cresciuto, cioè il quartiere di San Pietro a Patierno, estrema periferia della città, dove “non ci si può permettere di sognare” e oltre sessant’anni fa aveva cominciato a muovere i primi passi.

Funziona, dicevamo, sia per lo sguardo di Toni – che è nato senza problemi economici e gran parte della sua vita l’ha trascorsa a Roma, a seguito del padre, che ha lasciato la sua città per le minacce della camorra – e sia perché racconta una storia tutt’altro che facile o banale. Da un lato, infatti, c’è la scalata, punto su punto, quella di un ragazzino che proviene da quartieri difficili che oggi non ci sembrano neanche più appartenere all’Italia, che pubblica il primo 45 giri grazie a una colletta di famiglia, che suona nei matrimoni, lavora come gelataio e parte, davvero, dal basso, arrivando a riscattare migliaia di persone come lui, che non a caso ci si rivedono. D’Angelo, in questo senso, è stato uno dei primi cantati davvero “della gente”, con una parabola unica. Dall’altro lato – e in Nino. 18 giorni si vede bene – emerge un personaggio più complesso di come (lo) si è sempre raccontato: un operaio della musica, certo, ma anche una persona solitaria e malinconica, tutt’altro che la macchietta sogni & buoni sentimenti del casco d’oro (di cui a un certo punto si sentì prigioniero), con un rapporto strettissimo con la famiglia e che, dopo la morte della madre a fine anni ottanta, è caduto in depressione e ha provato a suicidarsi. In questo senso, il film fa riflettere sugli strascichi che lascia l’essere cresciuti in povertà e su come l’essere famosi in questo senso non sia in automatico una salvezza – insomma, si va oltre la solita maschera del cantante ricco e di successo, che “si è fatto da solo”. La vicenda è strettamente umana, ma esemplificativa. Ha sofferto, si è rialzato, ha combattuto da solo con le contraddizioni della sua terra e soprattutto contro un’Italia che lo trattava come artista di bassa lega (la prima rivincita, in questo senso, fu l’ospitata al concerto di Pino Daniele in Piazza del Plebiscito, nel 2008).

Una storia di oggi

Ora che è una specie di santo pagano, pure al netto del fatto che la periferia di Napoli è diventata quasi una cartolina per turisti, gli aspetti che si porta dietro la sua storia sono ancora più ampi di prima, e ci parlano. Almeno a livello sociale, il suo impatto è stato enorme: resta un precursore anche solo per l’uso del dialetto, che ha sdoganato ad alti livelli e che oggi, specie quello partenopeo, è dappertutto, da Geolier in giù. Più in generale, ha contribuito a mettere sulla cartina della musica italiana gli ultimi e le periferie, raccontando e incarnando le storie di chi viene da lì. E se alcune immagini di Nino. 18 giorni sembravo di secoli fa – una Napoli poverissima e in preda al contrabbando su tutti – tante altre ci descrivono l’oggi, come la sua partecipazione al Festival di Sanremo 1986, dove andò come oggetto misterioso per gran parte del pubblico ma come orgoglio dei napoletani, ai quali sarebbe bastato anche che fosse arrivato ultimo, bastava solo esserci. Ovviamente scontò anche lì vari pregiudizi anti-meridionali, in una vicenda non troppo diversa da quella di Geolier nel 2024. O, per allargare lo sguardo, a quella che oggi investe gran parte dei suoni degli artisti di seconda generazione. “Capisco come si sentono, io ho provato quel razzismo sulla mia pelle”, aveva detto nella nostra intervista. “Oggi l’odio per Napoli è passato di moda, l’obiettivo sono gli stranieri”. E se non l’avessimo mai veramente preso sul serio?

















4 minuti di lettura