Su Netflix c’è uno di quei film drammatici che graffiano la coscienza prima ancora dello sguardo. Una storia vera, scomodissima, che affonda le mani nell’oscurità dell’odio razziale e nella ferocia dei gruppi suprematisti americani. Un racconto che non ha bisogno di alzare la voce per far male, perché la sua forza nasce dalla realtà stessa.

Prima di dire il titolo, basta sapere questo: un poliziotto afroamericano degli anni ’70 decide di infiltrarsi nel Ku Klux Klan. Una missione impossibile, una sfida al sistema, una verità che sembra uscita da un romanzo e invece è accaduta davvero.

Ed è proprio con la trasmissione in streaming su Netflix che questa vicenda trova nuova vita cinematografica, anche se un po’ difficile da trovare nel catalogo, ricostruita con l’ironia tagliente e la potenza politica di un autore che da quarant’anni non smette di interrogare l’America sulle sue ferite aperte.

Si tratta di “BlacKkKlansman”, film del 2018 diretto da Spike Lee e vincitore dell’Oscar per la Miglior Sceneggiatura Non Originale. Un’opera che mescola dramma, crime e lampi di commedia, trasformando una storia incredibile in un atto d’accusa lucido e sferzante.

Dietro questo racconto c’è Spike Lee, uno dei più influenti cineasti americani contemporanei. Dal monumentale Malcolm X a Fa’ la cosa giusta, fino a titoli come Inside Man e Jungle Fever, il suo cinema parla da sempre di identità, ingiustizia sociale e conflitti razziali.

Con “BlacKkKlansman” Lee torna alle origini del suo sguardo politico, costruendo un film corrosivo, a tratti ironico, sempre lucidissimo nel modo in cui interroga il presente attraverso il passato.

L’adattamento prende forma dal libro Black Klansman dell’ex detective Ron Stallworth, che racconta la propria incredibile indagine sotto copertura. Il titolo stesso è un gioco linguistico che unisce due universi opposti — Black e Klansman — per restituire tutta la provocazione e la contraddizione al centro del film.

La critica internazionale, già alla sua uscita, ha parlato di “opera necessaria”, sottolineando come il film, pur ambientato negli anni Settanta, rifletta tensioni razziali ancora oggi evidenti negli Stati Uniti.

Su Google le valutazioni medie si mantengono elevate 85% e su IMDb il punteggio supera stabilmente la soglia di apprezzamento positivo con un ottimo 7,5/10. Un consenso trasversale, motivato soprattutto dalla capacità del film di alternare ironia e indignazione senza perdere mai la propria forza politica.

La trama – Ron Stallworth, primo investigatore afroamericano della polizia di Colorado Springs, affronta quotidianamente pregiudizi e discriminazioni dentro e fuori dal dipartimento. Quando passa all’Intelligence, intuisce un’opportunità: infiltrarsi nel Ku Klux Klan fingendosi un simpatizzante e avviare un’operazione che sembra impossibile.

A impersonarlo negli incontri frontali è il collega bianco Flip Zimmerman, mentre Ron coordina tutto via telefono, con un gioco di incastri tanto rischioso quanto geniale. Il Klan non sospetta nulla. Ma più l’indagine procede, più il pericolo cresce, mettendo a rischio non solo la missione ma anche la vita dei protagonisti.

A interpretare Ron Stallworth è John David Washington, attore in ascesa che si è imposto all’attenzione internazionale con ruoli in Tenet e Malcolm & Marie. Al suo fianco Adam Driver, uno dei volti più intensi del cinema americano recente, che qui veste i panni di Flip Zimmerman con una performance misurata e profonda.

Nel ruolo del leader del Klan, David Duke, c’è Topher Grace, mentre Laura Harrier dà voce all’attivismo afroamericano della comunità locale. Un cast solido, preciso, perfettamente diretto.