Nel suo libro «La Russia in quattro criminali» (2022, Einaudi), il criminologo di Oxford e Sciences Po, Federico Varese, dedica alcune pagine ai rapporti di lunga data di Donald Trump con la Russia e i suoi oligarchi, con un episodio che è particolarmente esemplificativo di questi rapporti e istruttivo:
Nel 2008, Rybolovlev comprò per 95 milioni una villa in Florida da Donald Trump, il quale aveva acquistato la stessa proprietà quattro anni prima per 41,4 milioni di dollari, con un guadagno per il tycoon di 53,6 milioni. Gli investigatori americani che hanno indagato sui rapporti fra Trump e Putin trovarono strano che, con il mercato immobiliare americano al collasso, Trump riuscisse a vendere a una cifra astronomica una casa che era sul mercato da due anni. Rybolovlev non mise mai piede nella villa e dopo poco la fece demolire: non si era accorto che la muffa era dovunque. Il portavoce dell’oligarca lo definí un ottimo investimento (p.30).
In un interessante volume per Mondadori sulla politica internazionale (Una trama del mondo, 2022), Michele Chiaruzzi, studioso di relazioni internazionali dell’Università di Bologna, osserva come le grandi potenze tendano “a piegare gli scopi comuni ai propri, spesso infrangendo i diritti dei più deboli e tradendone gli interessi” (p. 191).
Ecco, oggi un affarista senza troppi scrupoli (come testimonia anche la sua carriera di magnate) e con opachi trascorsi con il mondo russo, come ben spiegato da Varese, si trova alla guida di una grande potenza, anzi, della potenza egemone. E nel suo ondivago procedere mostra la lineare volontà di accordarsi con il capo di quella grande plutocrazia che è oggi la Russia – alla quale sembra dovere qualcosa – a spese dell’Ucraina, verso la quale ha già platealmente mostrato un atteggiamento che possiamo tranquillamente definire predatorio.
Non solo. In quel suo ondivago ma a suo modo coerente procedere sembra sempre mosso anche, perlomeno anche, dalla passione per gli affari, avendo con la sua presidenza rinnovato un aspetto premoderno del potere politico, ovvero la dimensione patrimonialistica nell’esercizio del potere di governo, dove i beni e gli interessi del ‘signore’ non si distinguono da quelli dello Stato. È da questa situazione che discende la messa in scena teatrale di incontri con tappeti rossi srotolati e pretesi accordi di pace, sopra la testa dell’Europa, dell’Ucraina e dei loro governanti.
Dentro a questa ripetitiva e cinica storia, che a nulla porta con dispetto dell’irascibile e umorale presidente, incredibile, ma vero, degli Stati Uniti, si collocano anche i ventotto punti proposti dall’amministrazione americana di cui si discute in questi giorni. A proposito dei quali, per non dimenticare l’aspetto ‘patrimonialistico’ appena evocato, il premio Pulitzer Anne Applebaum ha twittato: “Penso che gli americani e gli europei debbano vedere i protocolli segreti del patto Witkoff-Dmitriev prima di esprimere un giudizio. Quali accordi commerciali sono stati conclusi?”.
Quei ventotto punti, in realtà frutto della congiunzione di menti statunitensi e russe, sono di fatto i passi per una resa e la sottomissione degli ucraini al potere e al capriccio del Cremlino. Come è stato già notato da tutti gli osservatori e politici seri e consapevoli. In pratica, la soluzione del conflitto in Ucraina spazzando via l’Ucraina come soggetto politico sovrano. Con il corollario di una Europa senza voce in capitolo, quella stessa Europa che nella forma dell’Unione è l’unica entità alla quale l’Ucraina, con i suoi dirigenti politici e la sua società civile, è disposta a cedere sovranità, per esistere come stato europeo e occidentale. Inutile dire che secondo i ventotto punti, gli accordi economici dell’Ucraina saranno con gli Stati Uniti, probabilmente anche con la famiglia Trump.
Tuttavia, non è che quella tendenza ad accordarsi tra loro delle grandi potenze non possa trovare ostacoli. Già il blitzkrieg tentato del febbraio 2022, che in assenza di resistenza probabilmente avrebbe fatto dell’Ucraina una Bielorussia senza troppa opposizione americana (gli americani non proposero a Zelensky di aiutarlo nella fuga, dimostrando che ben poco credevano nella possibilità di ostacolare i piani del Cremlino?), fu sventato proprio da quella resistenza, per le prime settimane proveniente dalla sola forza ucraina. Poi, con la nuova presidenza americana amica del giaguaro, di nuovo Volodymyr Zelensky ha mostrato, con tanta cautela e accortezza, ma anche fermezza, che senza l’Ucraina non ci possono essere accordi, e che quegli accordi non possono calpestare l’indipendenza e l’autonomia dell’Ucraina. E così facendo ha anche trascinato con sé le cancellerie europee, esercitando di fatto un potere di leadership e fornendo empowerment ai leader europei. Con buona pace degli ideologi della geopolitica, l’Europa tutto sommato esiste e ancor più l’Ucraina esiste.
Così, di nuovo, Zelensky di fronte ai ventotto punti di conio russo-americano si è messo di traverso. E lo ha mostrato, con una forza che non ha eguali nelle leadership contemporanee, nel video pubblicato sulla sua pagina Instagram. Dieci minuti di un discorso drammatico e profondo rivolto in primis agli ucraini, quindi alle opinioni pubbliche occidentali – direi soprattutto europee – e ai loro governanti. Per fare sapere che non saranno gli ucraini a sottrarsi a negoziazioni e tentativi di giungere ad accordi, ma anche che l’indipendenza e la dignità del suo popolo – così ferocemente e tenacemente difese all’indomani dell’invasione e in questi quasi quattro anni di guerra – non sono in discussione.
Nella tarda sera del 20 novembre, in un altro intervento video aveva rimarcato:
Fin dai primi giorni della guerra abbiamo una posizione estremamente semplice:
l’Ucraina ha bisogno di pace. E una pace vera, tale che non venga spezzata da una terza invasione.
Una pace dignitosa, con condizioni che rispettino la nostra indipendenza, la nostra sovranità, la dignità del popolo ucraino. Ed è proprio condizioni del genere che dobbiamo garantire.
Nulla di tutto ciò è nei ventotto punti. Nel nuovo discorso Zelensky ha chiamato all’unità i suoi cittadini, li ha voluti rimobilitare in questa fase drammatica, aggravata dagli scandali sulla corruzione che sono per lui oggi un cruciale banco di prova, questione non esplicitata, ma implicita nelle sue parole, nella consapevolezza che quegli scandali sono utilizzati ora dai nemici del suo Paese con una intensificata propaganda che mira a fiaccarlo. Zelensky ha parlato di giorni che seguiranno difficili e importanti. Ma è ben arduo pensare che creda che da questi rinnovati piani possa uscire qualcosa di accettabile. Sa molto bene con chi ha a che fare, che si tratti degli aggressori o dell’amico di un tempo, l’America. Che non è più la stessa.
Quello che certamente sa è che la Russia deve essere posta nelle condizioni di rivedere la sua politica di aggressione facendo sì che il prezzo della continuazione della guerra diventi troppo alto. E per questo è necessario che l’Europa compia un balzo in avanti. Siamo uomini e per questo non invincibili, ha ricordato il presidente ucraino. Che ha anche rimarcato la drammaticità del momento che potrebbe mettere gli ucraini di fronte alla scelta tra preservare la propria dignità o perdere un alleato chiave. Un alleato che sembra abbia minacciato di abbandonarlo se non si risolve alla resa di fatto previsto dal piano.
Dunque, ora è il momento dell’Europa. Questo è il senso delle sue parole. Ma questa Europa per essere all’altezza del momento che il presidente ucraino ha così potentemente evocato deve finalmente uccidere il padre, che sino ad ora l’ha protetta, ma ora la sta tradendo. L’Europa e l’Ucraina o saranno entrambe soggetto politico o non saranno. La campana suona per tutti noi.