di
Marco Imarisio
Mosca finge distanza dal documento in 28 punti promosso da Trump, ma sa che la fase è propizia per una pace «russa». Lo «zar» dice però che, in caso di un «no» da parte di Kiev, il suo Paese è pronto «a perseguire gli obiettivi militarmente»
«Non è un lavoro da professionisti». Anche questo capita di leggere, sull’edizione online dell’Izvestia, uno dei più antichi quotidiani russi, nato nel 1917 come organo del Soviet di Pietrogrado e ora diventato organo dell’ortodossia putiniana, così va la Storia.
Sembra quasi che il nuovo «piano di pace» sia figlio di nessuno. O almeno, di madre ignota. «In Occidente si parla apertamente di “iniziativa russo-americana”», scrive Mikhail Rostovsky, l’analista politico di Moskovskij Komsomolets, considerato da molti come una precisa unità di misura degli umori del Cremlino. «Ma, da un punto di vista formale, Mosca non c’entra per niente. Il Cremlino si limita a osservare, perché gli va bene qualsiasi destino dell’attuale versione del piano. La Russia non è certo “prigioniera” di questa proposta. Se almeno questa volta Trump riuscirà a convincere il resto dell’Occidente, sarà fantastico. Se fallirà di nuovo, non sarà certo un dramma».
La conferma di questa narrazione arriva da Vladimir Putin in persona. Alla riunione settimanale del Consiglio di sicurezza, commenta per la prima volta il documento Witkoff-Dimitriev, con risposte tese ad evidenziare lo scarso coinvolgimento del Cremlino e le scarse aspettative su un via libera da parte di Kiev. «Il piano americano è una versione aggiornata di quanto stabilito in Alaska, che può costituire la base per una risoluzione pacifica», dice il presidente russo. «Il testo “modernizzato” non è stato però discusso con la Russia, perché gli Usa non hanno ottenuto il consenso dell’Ucraina, la quale insieme ai suoi amici europei sogna ancora di sconfiggerci».
Allo stesso tempo, aggiunge Putin, «noi siamo pronti al negoziato, che richiede una discussione precisa dei particolari del piano, e siamo anche pronti a perseguire i nostri obiettivi con mezzi militari». Poi, spazio alla discussione sulla lotta al neocolonialismo, tema cui era dedicata la seduta.
La Russia non ha fretta, il messaggio che viene fatto passare è questo. La base di partenza rimane sempre quella fissata lo scorso 15 agosto in Alaska. Anche per questo c’è molta cautela. «Era nato lo spirito di Anchorage», ha ricordato in un colloquio ristretto con i giornalisti Maxim Suchkov, direttore della Mgimo, l’Istituto statale di Mosca per le relazioni internazionali.
«Poi Trump è partito dicendo che ne avrebbe parlato con gli alleati europei: così tutto è evaporato». Esiste un implicito problema di credibilità dell’interlocutore principale, che spinge alla prudenza. Ma non potrebbe esserci momento più propizio per ottenere una «pace russa». Su questo punto esiste un consenso generale. L’agenzia statale Ria Novosti, per esempio. «Le crisi sul fronte rischiano di sfociare in un vero crollo della difesa ucraina. E per gli americani lo scandalo della corruzione sembra un argomento decisivo al fine di costringere Kiev ad accettare il piano di pace. Ma per Zelensky la fine della guerra a queste condizioni equivale alla sua fine politica».
Pur compiaciuta dall’accelerazione degli Usa, Mosca aspetta di valutare quali saranno le reazioni europee e ucraine. «Solo un atto di forza da parte di Trump può far approvare questo piano per intero», è la sintesi del politologo Vadim Trukhachev. A destare perplessità sono anche le «formulazioni vaghe» del piano di pace, così le definisce l’esperto del Consiglio russo per gli affari internazionali Leonid Tsukanov, «che in attesa di essere chiarite e definite, lasceranno tempo a Zelensky e ai suoi alleati per inventarsi qualcos’altro».
È la conclusione alla quale da sponde opposte arriva anche Tatiana Stanovaya, studiosa molto popolare in patria, poi dichiarata agente straniero ed emigrata in Francia. Secondo lei, il modo in cui è scritto il piano rivelerebbe «una comprensione superficiale e imprecisa delle pretese russe. Non sto suggerendo che Putin lo rifiuterebbe in toto, ma quasi certamente insisterebbe su una scrupolosa definizione di ogni impegno in forma dettagliata. Ciò crea un paradosso: avendo ricevuto gran parte di ciò che desiderava, Mosca ora deve prendere sul serio qualcosa che forse in circostanze normali considererebbe infondato e inaffidabile». Ma come sostiene proprio Izvestia, a caval donato non si guardano i denti. Certi proverbi presentano variazioni minime da un Paese all’altro, però hanno lo stesso significato.
22 novembre 2025
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