Cinzia Leone torna in scena con uno spettacolo che è tutto tranne che “pesante”, anche se al centro ci sono una madre ingombrante, la paura di deluderla, l’identità femminile e la fatica di crescere. Si intitola “Mamma sei sempre nei miei pensieri, spostati” e già dal titolo chiarisce la sua missione: ridere tantissimo di qualcosa che, in realtà, tocca nervi profondi.


In scena c’è lei, ma c’è anche sua madre, che le telefona in continuazione, che irrompe nello spettacolo, che si materializza su uno schermo gigante alle sue spalle, che la sommerge di lamentele e domande sulla sua gastrite. Un rapporto che diventa metafora di tutti i rapporti madre – figlia: quella “mammità” che ci abita dentro e con cui, prima o poi, dobbiamo fare i conti. Con la sua consueta leggerezza, Cinzia Leone parla di cordoni ombelicali lunghissimi, telefonate che non finiscono mai, amore per la vita e persino dell’aneurisma che l’ha costretta a ricostruire se stessa da zero. Sempre con un obiettivo: «Non colpevolizzare nessuno, ma offrire una chiave di crescita».



Partiamo dal titolo: “Mamma sei sempre nei miei pensieri, spostati”. Che spettacolo è?


«È uno spettacolo leggero, comico, assolutamente non pesante, e questo per me è fondamentale. Di pesante ne abbiamo già abbastanza. Parlo di cose profonde, sì, ma con una chiave di leggerezza, altrimenti il pubblico mi tirerebbe le sedie (e avrebbe pure ragione!). In scena c’è una madre che mi telefona durante lo spettacolo: la interpreto sempre io, ma invecchiata, “grande”, proiettata su uno schermo alle mie spalle. Un po’ alla New York Stories di Woody Allen. Ogni volta che pronuncio la parola “spettacolo”, lei viene immediatamente posseduta dal delirio di protagonismo e chiama. Chiama per dirmi che ha la gastrite, che le fa male lo stomaco, che devo chiedere se c’è un medico in sala… Di fatto lo spettacolo è questo: io non riesco neanche a cominciarlo, perché mia madre, appena sente la parola “spettacolo”, si infila con una violenza affettiva incredibile. Io dichiaro: “Basta mamma, questa volta avrò il mio spettacolo, basta tirannia, tutta la vita ho guardato la realtà attraverso la tua gastroscopia. Adesso faccio il mio spettacolo e si intitolerà “La gastrite”».


Al centro c’è il rapporto con la madre, ma lei parla soprattutto di “mammità”. Che cosa significa?


«“Mammità” è la mamma dentro di noi. Non è solo il rapporto madre – figlia in senso biografico, è quello che ci resta addosso: i pensieri, le frasi, le paure, l’impostazione affettiva che abbiamo respirato in casa. Noi pensiamo i pensieri di mamma per tutta la vita. O meglio: pensiamo i pensieri di chi ci ha cresciuto. E non è che c’è un colpevole: chi ti cresce non può fare altro che passarti il proprio vissuto, perché non ha altre informazioni. Il punto è: a un certo punto dobbiamo chiederci chi siamo veramente. Dobbiamo domandarci se tutti i pensieri che abbiamo nella testa sono davvero i nostri o se è arrivato il momento di conquistarci i nostri pensieri. Questo è lo spettacolo: una riflessione sulla crescita, ma detta in teatro con leggerezza, altrimenti saremmo in una seduta pesantissima e non in una serata divertente».



Quanto c’è del suo rapporto reale con sua madre?


«Non racconto la quotidianità in senso stretto, non è uno sfogo personale. Io parto dalla mia esperienza, certo, ma per arrivare a una chiave condivisibile.

L’episodio che mi ha fatto venire in mente lo spettacolo l’ho raccontato mille volte, ma è perfetto: mia madre era terrorizzata dalle briciole, dalle gocce per terra. Io da adulta dico: “Vado a vivere da sola, finalmente sarò libera da questo tormento”. Invito un amico a cena e lui, durante la cena, mi dice: “Non ti preoccupare, i piatti li lavo io”. Io schizzo sulla sedia: “No! Che mi fai tutte le gocce per terra!”. Lui si alza, mi viene incontro, mi impone le mani ironicamente e dice: “Mamma Cinzia, esci da questo corpo. Liberala!”. E lì ho pensato: questo sarà il mio prossimo spettacolo. È proprio il passaggio di consegna dell’identità: mia madre, come tutte le madri, mi ha passato la sua. Io ci sono cresciuta dentro. Poi, diventando adulta, ho cominciato a mettere in discussione certe cose, per capire cosa mi apparteneva davvero e cosa no».

C’è una telefonata reale di sua mamma che non dimenticherà mai?


«In mezzo ai miliardi di telefonate che ci siamo fatte, più che una singola chiamata mi resta la sensazione della sua presenza quando c’era. Adesso che non c’è più, nella mia testa la chiamo miliardi di volte. So che non mi risponderà, perché la vita è fatta anche di separazioni. La prima grande separazione l’abbiamo vissuta insieme quando è morto mio padre: io avevo otto anni, lei 32, con mio fratello piccolo. Da lì abbiamo ricostruito una nuova vita, piena di conflitti, di assenze, ma anche di forza. Se proprio devo citare una telefonata, è quella che in qualche modo mi ha salvato la vita: la sera della prima di Donne con le gonne. Avevo un fortissimo mal di testa, ero stanca, avevo appena finito di girare Parenti serpenti e stavo iniziando un’altra cosa all’alba sulla Pontina. La chiamo e le dico: “Mamma, io stasera non vado alla prima, sto male”. Lei mi dice: “Non fare la scema, questo è il tuo lavoro: mettiti un tailleur e vai alla prima del tuo film”. Quell’insistenza mi ha portato lì, e da lì poi è partita tutta la catena di eventi che ha fatto sì che l’aneurisma venisse riconosciuto in tempo».



Dopo l’aneurisma ha dovuto ricostruire tutto: quanto ha inciso sulla sua femminilità e sulla sua identità?


«Quando hai metà corpo paralizzato, devi ricostruire tutto. Mi sono svegliata e non c’era più metà del corpo: il braccio, la gamba, il piede… niente. A 32 anni, nel pieno della vita. È un’offesa fortissima alla femminilità, ma non solo alla mia: per chiunque viva una malattia con un esito fisico così importante. La riabilitazione è stata lunghissima e, paradossalmente, molto solitaria. All’inizio tutti sono felici di vederti reagire, poi quando vedono che “ce la fai” allentano un po’ tutti. Io ho lavorato con fisioterapisti, terapisti, psicologi: la terapia psicologica è stata fondamentale. Un recupero non è mai solo questione di esercizi: è capire cosa succede dentro di te. Capire che non basta fare una cosa dieci volte, ma mille, per anni. E lì stai già ricostruendo un’identità: scopri che sei capace di insistere, di tenere duro. Anche questo, in qualche modo, è figlio di quell’amore per la vita che mi ha trasmesso mia madre».


In tutto questo, cosa vorrebbe che arrivasse a chi vede il suo spettacolo?


«La capacità di ridere di noi stesse, sia nell’essere madri che nell’essere figlie. Accettare insieme a tua madre o a tua figlia che non ti puoi sottrarre a questo passaggio di consegna e saperne ridere insieme é l’atto più creativo che possiamo fare».




Ultimo aggiornamento: sabato 22 novembre 2025, 07:03





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